Cresce il consumo di sedativi e benzodiazepine perché dormire, tra pandemia, crisi economica e guerra è sempre più difficile. Ma quando l’insonnia si fa cronica, i farmaci perdono efficacia. Dunque, che fare?
Tutti coloro che dormono bene si assomigliano, ogni insonne lo è a modo suo, per dirla con Lev Tolstoj (che peraltro nei suoi Diari annotava: «Di nuovo una notte insonne e tormentosa…»). Mentre sul buon riposo c’è poco da dire, le notti irrequiete sono complesse e diverse le une dalle altre. E tanti sono i modi di non chiudere occhio. Appoggiare la testa sul cuscino e aspettare, aspettare, aspettare…; oppure crollare subito e risvegliarsi dopo poco, incapaci di risprofondare nell’oblio; interrompere il sonno cinque, sei volte; ancora, trovarsi svegli prima dell’alba.
Il sonno inattaccabile è un privilegio di pochi, certo, ma questi due anni di pandemia, crisi economica e incubi bellici hanno messo a repentaglio la serenità notturna di tutti. In Italia ormai un adulto su 10 fa uso di ansiolitici o sedativi (negli over 65, uno su 4), con un aumento di quasi il 10 per cento rispetto al 2019, l’ultimo anno «spensierato».
Soluzioni? Poche. Si prende una pillola, o le famose «goccine», per poi scoprire che il problema non sparisce. Di contro, ci ritroviamo con gli effetti collaterali, i tentativi di cambiare pasticca sperando in esiti migliori, l’esigenza psicologica di aumentare la dose, la necessità – al contrario – di interromperne prima o poi l’uso.
«Il sonnifero perfetto non esiste semplicemente perché i meccanismi del sonno sono molto complessi, è un fenomeno fisiologico con un equilibrio assai delicato e l’insonnia è multifattoriale, che sia acuta o cronica – e per quest’ultima si intende tre notti a settimana da un mese» dice Gaetano Di Chiara, tossicologo e professore emerito all’Università di Cagliari. «Oggi poi la guerra ha creato un’ansia collettiva. E questo tipo di insonnia “secondaria”, dovuta a cause esterne, è molto comune: secondo studi epidemiologici, ne è affetto il 45 per cento delle persone intervistate». Il rimedio più a portata di mano, dopo un po’ di notti in bianco, è la prescrizione di un «farmaco ipnoinducente». E il medico lo dà, con l’avvertenza di prenderlo al massimo per un mese, giusto per impedire che l’insonnia si cronicizzi. Ma spesso l’utilizzo si prolunga. E staccarsene alla fine diventa difficile.
In questa prima fase, di molecole ce ne sono diverse, in particolare nella categoria delle benzodiazepine. «Quelle impiegate specificatamente per il sonno sono due» precisa Di Chiara. «Il triazolam e il temazepam. Il primo è indicato per chi non si addormenta subito: ha “emivita” breve, ossia agisce e poi se ne va senza residui diurni. L’altro, il temazepam, si usa sia per iniziare il sonno che per mantenerlo».
Detto così sembra facile. Peccato che le evidenze sulla loro efficacia siano alquanto deboli. In altre parole: negli studi eseguiti, non hanno dimostrato effetti né elevati né moderati, bensì «benefici molto limitati». Non esistono solo le benzodiazepine però. Negli ultimi anni si sono diffusi i cosiddetti «farmaci zeta» (perché nel nome hanno sempre questa lettera: Zolpidem, Zaleplon…). Non sono benzodiazepine ma, in pratica, agiscono sugli stessi recettori. Funzionano? Anche nel loro caso, come per i farmaci precedenti, i benefici sono sì superiori agli svantaggi, ma le prove della loro efficacia non appaiono granché convincenti. «Anche perché si basano su studi non troppo rigorosi né troppo approfonditi. Tranne che nel caso della benzodiazepina triazolam» precisa Di Chiara. «Ma con un paradosso: nelle indagini, più accurate, che la riguardano – o forse proprio per quello – emerge che vantaggi e aspetti negativi in fondo si equivalgono». A proposito di eventi avversi, quali sono esattamente? La qualità del riposo, non molto gradevole, e gli straschichi del farmaco durante il giorno, fino ai colpi di sonno che finché si sta sul divano pazienza, ma se si è al volante si rischiano guai (in genere, il pericolo è con dosi elevate. Per esempio, con lo zolpidem non si dovrebbero superare 10 milligrammi).
In soccorso agli insonni, negli ultimi anni le case farmaceutiche hanno messo a punto altri prodotti. Nel 2017 ecco il suvorexant che agisce contrastando l’azione dell’orexina, un ormone che, nel cervello, regola il ritmo sonno/veglia. Efficace tanto quanto gli altri (ossia poco). Mentre nei mesi scorsi la Fda americana ha dato via libera a un principo attivo simile, il daridorexant (si chiamano tutti un po’ così. Il nome commerciale, almeno negli Usa, è Quviviq – il «battesimo» dei medicinali varrebbe un articolo a parte). Cinquanta milligrammi promettono di accorciare il tempo necessario a prendere sonno: 11,7 minuti in meno rispetto al placebo. Una grande differenza? Chissà.
Per chi confida nella melatonina (c’è chi ne assume anche 30 milligrammi, la dose consigliata è 1 mg), esiste un analogo sintetico: il ramelteon. «Ma nello studio del Journal of clinic sleep, su cui mi sono basato per questa chiacchierata sui sonniferi, viene considerato come privo di interesse per i disturbi del sonno» avverte Di Chiara. «Forse l’unico uso valido è nelle alterazioni del ritmo circadiano, chi va a dormire molto tardi e si sveglia altrettanto tardi». I cosiddetti «gufi», contrapposti alle «allodole», chi si alza presto al mattino e si corica altrettanto in anticipo.
A parte la loro efficacia relativa, il grosso problema dei sonniferi (benzodiazepine o altri principi attivi) è che vanno dati solo «al bisogno», ossia per stroncare al più presto il circuito delle notti in bianco. Nella realtà, le cose vanno un po’ diversamente. Una volta che si inizia a dormire con «l’aiutino», è arduo farne a meno. Lo sanno bene i medici di base, che ai loro pazienti difficilmente riescono a levare la pillola per dormire.
Racconta a Panorama Marta Mora, medico di medicina generale in provincia di Novara che sul sito Medicals Facts aveva scritto dell’impiego (s)corretto delle benzodiazepine: «Nelle ultime settimane mi è capitato il caso di una signora 75enne alla quale ho cercato di scalare la benzodiazepina che assumeva da quasi vent’anni e senza risultati, per darle un antidepressivo, vista che era depressa. Mi ha chiamato dicendo che aveva cercato di ridurle, due gocce in meno ogni tre o quattro notti, ma non ci riusciva perché era spaventatissima. L’effetto placebo aveva preso il sopravvento, causando assuefazione psicologica».
Capita di frequente, ammette la dottoressa: arrivano ai sonniferi dopo vari tentativi di prodotti «naturali» e l’uso da occasionale si fa cronico. Negli anziani poi l’abuso provoca vuoti mnemonici, disorientamento, giramenti di testa… sintomi che passano per quelli tipici della vecchiaia ma non lo sono. La Fda nel 2020 segnalava, nella sindrome di astinenza da benzodiazepine, aumento dell’ansia, attacchi di panico, alterazione della memoria, depressione, alterazioni del ritmo cardiaco.
«Finché sono i medici a prescrivere i sedativi ok, ma dietro il consumo c’è spesso il passaparola, l’acquisto dal farmacista “amico” oppure online» continua Mora. « E spesso accedono alla benzodiazepina “sbagliata” per loro, ossia con emivita lunga quando sarebbe più indicata quella che non resta troppo in circolo. Ma la cosa che mi preoccupa di più, e parlandone con colleghi ho visto che non è solo la mia esperienza, è l’abbassarsi dell’età nella richiesta di questi farmaci, verso i 50 anni e anche nei giovani: ragazzi tra 15-18 anni che già fanno uso di melatonina o tranquillanti».
Rassegniamoci dunque a non dormire, a farlo male e poco? Ovviamente no. Stabilito che «le 20 goccine» non risolvono il problema, e in attesa del sonnifero che simuli un sonno naturale e rigeneratore (sarebbe un blockbuster mondiale), riconciliarsi con la notte è possibile. Se è vero che accedere ai Centri del sonno, come segnala Mora, non è sempre facile perché esistono nelle grandi città, ma non in modo capillare sul territorio, la cura migliore nell’insonnia prolungata (in quella acuta i farmaci hanno effettivamente senso) è la terapia psico-comportamentale.
«L’insonnia è il tipico meccanismo che si autoalimenta, non si dorme per paura di non dormire. Il trattamento cognitivo è efficace proprio perché spezza questo circolo vizioso, ed è dimostrato sulla base di tanti studi che hanno confrontato la terapia con i farmaci con quella non farmacologica» conferma Di Chiara. «Quest’ultima richiede tempo, almeno qualche mese, ed è fondamentale che il terapeuta sia bravo visto che si basa su una giusta diagnosi e su una serie di colloqui e istruzioni per imparare i comportamenti di contrasto all’insonnia. Ma se si trova lo psicologo in gamba, è come vincere un terno al lotto».