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Malasanità: la Sicilia che abbandona i suoi malati

Malasanità: la Sicilia che abbandona i suoi malati

Una professoressa attende otto mesi un referto che avrebbe potuto salvarle la vita. Un uomo scompare dal pronto soccorso e viene ritrovato cadavere nello stesso ospedale, nove giorni dopo. Intanto, nei palazzi del potere, la crisi politica ruota non attorno alle vittime della malasanità, ma alle nomine dei dirigenti. In Sicilia, la sanità pubblica implode e nessuno si assume la responsabilità.

La Sicilia è quella regione dove un paziente si può allontanare da un Pronto Soccorso di Palermo, ed essere ritrovato -cadavere- dopo 10 giorni, all’interno dello stesso ospedale, in un locale abbandonato. E ‘ la regione dove una malata di cancro aspetta 8 mesi gli esiti di un esame istologico, e quando arrivano è troppo tardi: le metastasi sono ormai troppo avanzate e le cure diventano inutili. La malasanità uccide in silenzio: e in questi giorni la contabilità del dolore ha un nuovo, tragico bilancio. Maria Cristina Gallo, 56 anni, professoressa di Mazara del Vallo, è morta di cancro; la sua denuncia pubblica sui ritardi dei referti istologici dell’Asp di Trapani aveva acceso i riflettori su un problema enorme, con più di tremila pazienti che hanno atteso inutilmente per mesi i risultati dei propri esami, più di 300 casi di tumori scoperti tardivamente, altre due morti sospette e un’inchiesta della Procura (diciannove tra medici e dirigenti dell’ASP indagati) scaturita proprio dalla sua denuncia. Le ipotesi di reato includono omissione di atti d’ufficio, lesioni colpose e, in alcuni casi, omicidio colposo. Ma la giustizia non è riuscita a salvare la vita di Maria Cristina. Nel frattempo, a Palermo, Giovanni Cuvello, 73 anni, scomparso dalla sala d’attesa del pronto soccorso di Villa Sofia, dove si era recato per un malore, è stato ritrovato morto all’ottavo piano dello stesso nosocomio: l’indagine appurerà quando è defunto, e se il corpo sia rimasto davvero in ospedale per 10 giorni. I suoi parenti, che nel frattempo si erano rivolti anche alla trasmissione “Chi l’ha visto?” per ritrovarlo, sono disperati e si chiedono incessantemente come sia possibile sparire e morire all’interno di un ospedale. Nelle stesse ore, nei palazzi del potere, il governo regionale guidato da Renato Schifani rischia di cadere, proprio a causa della sanità: ma non per queste, e tante altre, tragedie accadute negli ospedali della regione negli ultimi mesi, bensì per la sua volontà di rinnovare l’incarico di dirigente della Pianificazione Strategica dell’Assessorato alla Sanità al suo fedelissimo, Salvatore Iacolino (già deputato nazionale di Forza Italia). Confermato al suo posto dal governatore Schifani con la seguente motivazione: “Ha lavorato bene”, contro il parere di FdI, il super dirigente non ha ritenuto opportuno fare alcuna dichiarazione pubblica di cordoglio il giorno della morte della professoressa Gallo. Così come non ha fatto nemmeno l’assessore alla Salute, Daniela Faraoni, né lo stesso Schifani. Come se la morte di una persona che ha atteso un esame istologico per otto mesi fosse la normalità ineluttabile, e non “uno dei più grandi scandali di malasanità degli ultimi vent’anni” come disse Matteo Renzi nello scorso mese di Marzo, quando la notizia si diffuse in tutta Italia.

«Siamo stati lasciati soli fin dall’inizio» dice oggi Giorgio Tranchida, marito della professoressa Gallo. «Da parte delle istituzioni mai una telefonata, né una lettera, né tantomeno l’offerta di un supporto — logistico, economico, psicologico — o anche solo un gesto umano, una parola di scuse. Silenzio totale. Nessuno si è mai fatto vivo, e noi siamo rimasti a fronteggiare tutto da soli, come se fossimo trasparenti, come se non esistessimo».

Il primo ad accendere i riflettori sul caso della professoressa Gallo era stato il vice presidente della Camera dei Deputati, l’onorevole forzista Giorgio Mulè, nel mese di Marzo 2025. Lui è stato anche tra i pochissimi a ricordarla pubblicamente: «Non il caso e neppure la fatalità hanno deviato il corso della sua esistenza: Cristina è diventata simbolo, suo malgrado, di uno di quei casi che si definiscono di malasanità» ha dichiarato Mulè. «Pur essendo provata dalla sofferenza, non si è mai arresa. Ha combattuto la malattia e insieme una battaglia per cercare verità e giustizia. Ha combattuto soprattutto per aiutare gli altri.».

Proprio lei infatti si era accorta che qualcosa non andava, nella procedura dei referti istologici di Mazara del Vallo, e che il suo non era solo uno “sfortunato” caso isolato, bensì la punta di un iceberg. «Abbiamo scoperto per caso, un giorno che mia moglie si era recata in ospedale per richiedere la sua cartella clinica, che c’erano più di tremila cartelle ferme in un armadio metallico, tutte ancora senza referti degli esami istologici» continua Tranchida. «Tremila persone come mia moglie, convinte che fosse tutto a posto, perché qualcuno diceva loro “stia tranquillo, quando arriva l’esito dell’esame la chiamiamo noi”. Ma non arrivava niente. Nessuna diagnosi, nessuna chiamata, nessuna allerta. Intanto la vita scorreva, le malattie avanzavano, e le istituzioni dormivano A quel punto noi abbiamo deciso di andare a Milano per le cure. Ci avevano anche detto che era stato istituito un fondo per le vittime di questo scandalo sanitario. Un fondo per sostenere le spese di chi si era trovato improvvisamente dentro un incubo. Ma a quanto pare non era vero niente: solo un annuncio, mai seguito da fatti».

Chi ha pagato, per tutto ciò? Praticamente nessuno, se non Ferdinando Croce, direttore generale dell’Azienda sanitaria provinciale di Trapani ai tempi della notizia dello scandalo, che è stato sollevato dall’incarico. Un’ispezione regionale seguita al caso dei referti aveva infatti evidenziato criticità rilevanti nella gestione del servizio, contestando alla direzione aziendale mancanze organizzative e omissioni negli obblighi di garanzia per i pazienti. Croce però ha sempre respinto le accuse, sostenendo che i problemi derivassero da carenze strutturali e da una gestione stratificata nel tempo, non da sue responsabilità dirette. Il manager, successivamente, intervenendo davanti alla Commissione Sanità dell’Assemblea regionale, aveva infine annunciato le dimissioni, dichiarando di essere stato trasformato in un capro espiatorio di un sistema già compromesso e dichiarando anche di aver avvisato delle criticità sulla tempistica dei referti l’Assessorato alla Salute: sembrerebbe, da quanto dichiarato durante un’intervista, senza aver ricevuto risposta.

Il vice presidente Mulè, che sul caso ha esercitato fin dall’inizio una forte pressione politica, chiedendo responsabilità e dimissioni dei vertici, presentando anche interrogazioni parlamentari, dal canto suo ha più volte dichiarato che intende proseguire nella battaglia iniziata da Maria Cristina Gallo, nella ricerca della verità e dei colpevoli.

Il dossier sui Pronto Soccorso dell’isola

Di Faraoni e Iacolino ci siamo già occupati su queste pagine. E’ infatti al primo (e al precedente assessore alla Salute, Giovanna Volo) che si deve l’iniziativa, alla fine del 2024, di far effettuare da 17 primari dei più importanti ospedali siciliani- un’ispezione su tutti e 67 i reparti di emergenza dell’Isola, allo scopo di rilevare criticità e processi da rivedere. L’iniziativa si era necessaria dopo gli scandali dell’estate 2024, con molti casi di malasanità avvenuti soprattutto nei nosocomi dell’area tirrenica, che in estate si riempiono anche di turisti. Peccato che di questa relazione di 40 pagine, che viene definita “scottante” da chi ha potuto leggerla, si siano perse le tracce, quantomeno quelle pubbliche. Il nuovo assessore, Daniela Faraoni, durante un’intervista che ci ha concesso nello scorso mese di Marzo, non ci ha permesso di visionarla né di parlarne con i tecnici, allo scopo di capire meglio le criticità di rilevante interesse pubblico. Il dirigente Iacolino, dal canto suo, ci ha risposto di non possedere il dossier, che risulta quindi secretato. Nonostante la notizia delle ispezioni fosse stata ampiamente pubblicizzata sulla stampa, alla fine del lavoro alla popolazione non è stata data alcuna informazione al riguardo: sebbene nelle 40 pagine fossero emerse criticità molto rilevanti riguardo a numerosi Pronto Soccorso dell’isola. Secondo le indiscrezioni, la relazione dice sicuramente quanto basta per farci affermare che certi Pronto Soccorso dell’isola potrebbero rivelarsi così a rischio che sarebbe più prudenti tenerli chiusi. Si parla di alcuni presidi ospedalieri dove non risulterebbero formalizzate procedure aziendali sulla gestione del sovraffollamento e, come dimostrato da recenti casi di cronaca, anche sulla gestione dei farmaci a rischio: la scorsa estate in alcuni PS della fascia tirrenica sono stati somministrati infatti farmaci oppioidi scaduti. Gravissimo il problema del boarding: nei Pronto Soccorso dell’isola infatti, in un anno, migliaia di pazienti restano sulle barelle per molti giorni: in condizioni di promiscuità ed in assenza dei più elementari comfort. I problemi di organico sono enormi: nei Pronto Soccorso dell’isola mancano circa il 50% dei medici previsti , e qui pochi si dibattono tra mille problemi organizzativi, tra i quali è estremamente preoccupante il malfunzionamento delle reti tempo-dipendenti su infarto e ictus, puntualmente rilevato dal sistema di valutazione esiti da parte dell’AGENAS. Sono ovviamente presenti anche grossi problemi strutturali. Probabilmente, li dossier è risultato essere “politicamente insostenibile”.

Il “caso” Ospedale Civico di Palermo

All’Ospedale Civico di Palermo, uno dei più grandi e importanti dell’isola, nel frattempo si intrecciano due vicende che, per motivi diversi, hanno scosso l’opinione pubblica e la sanità siciliana: il caso Caronia, legato a presunti episodi di malasanità e irregolarità cliniche, e la vicenda di una mail inviata tardivamente, che ha fatto perdere all’azienda ospedaliera ventidue milioni di euro di fondi europei. Il primo caso porta il nome di Francesco Paolo Caronia, chirurgo che ha denunciato pubblicamente e alla magistratura pratiche che ha definito “pericolose” all’interno del reparto di Chirurgia toracica in cui lavora. Secondo le sue segnalazioni — diverse querele presentate tra il 2022 e il 2025, con nomi, date e cartelle cliniche — sarebbero stati eseguiti interventi chirurgici non necessari, falsificate cartelle per ottenere rimborsi più alti e aggirate liste d’attesa per favorire alcuni pazienti. Caronia racconta anche di diagnosi mancate o tardive e di pazienti che sarebbero morti per errori evitabili. Le sue denunce hanno portato alla creazione di una commissione straordinaria regionale incaricata di riesaminare le cartelle cliniche della Chirurgia toracica dal 2020 in poi. Commissione che non avrebbe rilevato elementi di criticità. Intanto, alcuni casi sono diventati simbolo: come quello di una donna che sarebbe stata dimessa troppo presto e poi operata solo in un altro ospedale, o quello di Nadia, 37 anni, morta dopo un intervento che secondo Caronia non sarebbe mai dovuto avvenire in quelle condizioni. Le indagini sono attualmente in corso

L’altro episodio, meno drammatico sul piano umano ma altrettanto grave per le conseguenze pratiche, riguarda una mail inviata con un giorno di ritardo. A gennaio 2025, l’azienda ospedaliera ha perso la possibilità di accedere a 22 milioni di euro di fondi europei per un bando regionale: la documentazione è stata spedita via PEC il 24 gennaio, mentre il termine ufficiale era il 23. Un errore burocratico, ma di proporzioni enormi. Quelle risorse erano destinate a modernizzare reparti chiave come Rianimazione e Malattie infettive, oltre a finanziare nuove apparecchiature e sale operatorie. Per questa svista è stato presentato un esposto del Codacons alla Corte dei Conti, che dovrà stabilire se ci siano state responsabilità individuali o gestionali. Due storie diverse, insomma, ma accomunate da un elemento: mostrano quanto l’efficienza — o l’inefficienza — della macchina sanitaria possa incidere in modo concreto e pesante, sia sulla salute dei pazienti sia sull’intero sistema pubblico.

Le liste d’attesa? Un problema insanabile

Un’altra enorme criticità del sistema siciliano è quello delle liste d’attesa per le prestazioni mediche. Secondo i dati più recenti diffusi dal sistema regionale di monitoraggio, infatti, ci sono circa 212mila prestazioni prenotate e mai eseguite — tra esami diagnostici, visite e interventi. Negli ultimi mesi la Regione Sicilia ha quindi deciso di provare a intervenire in modo deciso sul tema delle attese per le visite urgenti: una nuova disposizione regionale, promossa dall’assessore alla Salute Daniela Faraoni impone che gli esami e le visite contrassegnati con priorità “U”, cioè urgenti, debbano come da norma essere espletate entro tre giorni, e nell’ambito delle prestazioni istituzionali, senza passaggi intermedi e soprattutto senza più costringere ad attendere settimane o mesi, come è accaduto finora.  Nelle intenzioni, questo sistema dovrebbe andare anche ad alleggerire la pressione sui Pronto Soccorso, dove spesso la gente si riversa per l’impossibilità di ottenere esami in tempi ragionevoli. Peccato che le cose non si risolvano solo sulla carta: com’è possibile dare seguito praticamente alla disposizione, senza nuove risorse, in un sistema sanitario già in affanno e dove i medici sono già troppo pochi, come ci insegna lo scandalo di Trapani? Le aziende sanitarie, comunque, stanno provando a organizzarsi. Peccato che all’ASP di Siracusa abbiano interpretato la norma mandando tutti gli utenti con codice di Urgenza nientemeno che… a fare gli esami in Pronto Soccorso. Così, nei reparti di emergenza urgenza di tutta la provincia, iniziano ad arrivare pazienti che di urgente hanno solo la dicitura sulla ricetta. E pretendono di fare tac, risonanze, colonscopie e visite specialistiche, perché inviati direttamente dal CUP. «Ma noi che codice di priorità dovremmo attribuire a persone che si presentano in Pronto soccorso senza avere una patologia urgente?» si sfoga un medico che preferisce rimanere anonimo. «Il verde? In quel caso potrebbe esserci danno erariale. Il bianco? Ma poi in Sicilia sono comunque pochissimi quelli che pagano il ticket. E inoltre questo sistema rischia di far tracollare ancora di più il sistema. Siamo già in forte carenza di organici in tutto il territorio. Non possiamo occuparci di emergenza e metterci anche a fare visite su ricette». Questa norma, però, è scritta nero su bianco in una nota inviata ai direttori generali, sanitari e di Pronto Soccorso. Ferma restando la buona fede della circolare, questa è l’antitesi della filosofia enunciata dall’assessore.

Del resto, in un sistema sanitario in sofferenza come quello che abbiamo descritto, è ovvio che le disposizioni nazionali volte a garantire performance di alto profilo ed efficientamento del sistema, con provvedimenti di contrasto al sovraffollamento dei Pronto Soccorso, di incremento dell’attività ambulatoriale per lo smaltimento delle liste d’attesa e di riduzione dei costi dei dispositivi potrebbero rivelarsi addirittura confliggenti. Il risultato è catastrofico per gli utenti.

L’affondo del governatore del Veneto Luca Zaia: immorale dover partire per curarsi

La situazione sanitaria siciliana non sfugge alla politica nazionale. Il governatore veneto Luca Zaia, in occasione dell’inaugurazione di una nuova apparecchiatura all’ospedale di Treviso, ha lanciato proprio oggi un duro affondo sulla sanità isolana, facendo riferimento ai tanti pazienti che dall’isola sono costretti a trasferirsi al Nord per essere curati. Pazienti che devono sobbarcarsi spese enormi e ad affrontare difficoltà logistiche e problemi dovuti alla lontananza dal proprio lavoro e dai nuclei familiari. «Ho incontrato due signori anziani seduti su una panchina qui fuori, e il marito, un po’ commosso, mi ha detto che da due anni sono qui per curare la moglie» ha dichiarato Zaia a margine dell’inaugurazione. «Nel reparto di ematologia le hanno salvato la vita. Ma loro hanno dovuto affittare un appartamento a Preganziol e decidere di vivere qui, e sentono molta nostalgia della loro terra. Io trovo immorale e poco etico che i cittadini siano costretti a fare la valigia per curarsi fuori regione. Noi dobbiamo essere orgogliosi della nostra sanità, ma le regioni dalle quali partono questi cittadini, qualche domanda se la devono fare, perché non funziona così».

Esattamente quello che è successo a Maria Cristina Gallo. Ma nemmeno lei ha potuto salvarsi la vita, perché i ritardi della Sicilia l’hanno condannata ancor prima che arrivasse la diagnosi. Perché in questa disastrata isola, ancora oggi nel 2025, si muore in silenzio. Si muore aspettando un esame che non arriva, cercando un medico che non c’è, camminando nei corridoi di ospedali che dovrebbero curare e invece diventano labirinti di solitudine e abbandono. Si muore mentre la politica litiga per poltrone e incarichi, senza trovare il tempo di pronunciare nemmeno una parola di cordoglio o di partecipare a un funerale. Cristina Gallo, Giovanni Cuvello e le migliaia di pazienti rimasti sospesi tra attesa e disperazione non sono eccezioni: sono la fotografia fedele di un sistema che si è assuefatto al disastro. La sanità siciliana non è soltanto malata: è morta. E con lei tanti, troppi siciliani.

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