Quel formaggio “a latte crudo” acquistato in malga dall’allevatore che sembra così sano, durante le vacanze sulle Dolomiti. I funghi raccolti dal cugino, che l’ha sempre fatto e non è mai successo nulla, o dai venditori ambulanti nei mercatini improvvisati, che esibiscono nelle cassette dei porcini le certificazioni (probabilmente finte) degli avvenuti controlli micologici. E ancora i succhi di frutta non pastorizzati, fatti con le mele raccolte durante la vacanza “esperienziale”, per cui niente di male può arrivare da ciò che è a chilometro zero e a contatto con la natura. E invece, quel “niente di male” può voler dire tutto il contrario: mesi in ospedale, danni neurologici e renali anche permanenti, anche la morte.
Naturale non significa sicuro
Naturale, infatti, non significa sicuro e dietro a questa narrazione si nascondono rischi concreti, che la scienza conosce bene. Ora li conoscono anche i genitori del bambino di 15 mesi che, in agosto, è stato ricoverato in condizioni molto gravi nel reparto di Nefrologia dell’ospedale di Padova. Dopo aver consumato un formaggio a latte crudo in un caseificio trentino ha sviluppato la Seu, Sindrome emolitica uremica, una patologia che porta all’insufficienza renale e che è stata scatenata dal batterio dell’Escherichia Coli presente nello stomaco delle mucche. Il bambino, fortunatamente, si è salvato, ma non è sempre così.
I casi precedenti
Dal 2017 il piccolo Mattia, che allora aveva 4 anni, è in stato vegetativo a causa di un prodotto caseario a latte crudo consumato sempre in Trentino, mentre l’anno scorso Elia Damonte, di 3 anni, è morto al Gaslini di Genova dopo 51 giorni in rianimazione, per le stesse cause. «Questi sono solo i casi più conosciuti ed emblematici», afferma Riccardo Caccialanza, direttore del reparto di Dietetica e nutrizione clinica della Fondazione Irccs Ospedale San Matteo di Pavia. «Con il latte crudo anche noi adulti ci esponiamo a tanti rischi: gastroenteriti che possono essere anche molto gravi, insufficienza renale e pure meningiti e altre complicazioni neurologiche. Non parliamo di teorie campate in aria con lo scopo di boicottare i produttori a chilometro zero in nome di chissà quale complotto: parliamo di batteri che vivono nelle feci degli animali, sulla loro pelle, sulle mani di chi li munge, e migrano facilmente nel latte. Perché nel passaggio diretto dalla mammella della mucca al contenitore non c’è nessun processo che elimini i patogeni. È un rischio assolutamente inutile».
I falsi miti del crudo
Le fantasiose teorie di crudisti e crudariani che decantano le virtù del latte e dei succhi consumati senza bollitura o pastorizzazione non hanno alcun fondamento. Per esempio, una delle affermazioni più diffuse è quella che queste bevande siano più nutrienti, proprio perché non sono state riscaldate: solo che le vitamine (come la B6, la B12 e la riboflavina) sono per la maggior parte termo-stabili, quindi non risentono del calore e della pastorizzazione. «C’è poi chi dice che il latte crudo sia più utile per prevenire l’osteoporosi, che protegga il sistema immunitario e non faccia sviluppare allergie e intolleranze», continua Caccialanza. «Ma a parte il fatto che non scatenare un’allergia non serve a nulla, se poi rischiamo di morire per un’infezione, sono tutti argomenti che non reggono: i dati scientifici seri non confermano questi presunti benefici. Sono mode, non prove».
I numeri dell’Oms
Secondo i dati dell’Organizzazione mondiale della sanità, il cibo contaminato provoca 600 milioni di casi di malattie alimentari ogni anno, con quasi 450 mila morti. E mentre i dati di Coldiretti e Campagna amica affermano che in Italia quasi 30 milioni di persone acquistano (anche) a chilometro zero nei mercati contadini o direttamente dai piccoli produttori, è bene ricordare che non si muore e non ci si ammala solo perché si è bevuta questa bevanda, ma anche per molto altro.
Dalla carne cruda alle erbe selvatiche
Le testimonianze che provengono dai reparti di Pronto soccorso parlano chiaro: dalla carne cruda delle amate tartare servite direttamente in cascine e agriturismi durante le tappe di “turismo partecipativo”, così di moda negli ultimi anni, può derivare anche la brucellosi. Conseguenze? Febbre alta, astenia, fino ad arrivare a meningiti e osteomieliti, senza contare che la carne priva dei controlli garantiti dalla filiera dei macelli autorizzati può portare a parassitosi come la tenia e la toxoplasmosi. Dalla ricotta, dal burro e dai formaggi freschi, invece, possono venire praticamente tutti i tipi di enterobatteri, così come la listeriosi: infezione molto complicata, perché non è sensibile a gran parte degli antibiotici più potenti e può portare alla meningite da listeria.
E non stiamo qui a elencare le criticità delle uova raccolte direttamente dall’incosciente turista proprio lì, nel pollaio, e “bevute” crude come si faceva una volta: basterà citare la pericolosissima salmonella. Ancora: succhi di frutta o sidri non pastorizzati, tipici dei mercatini naturali e magari serviti con anonime bottiglie non etichettate, possono causare problemi importanti, dovuti al passaggio dei batteri dalle bucce al prodotto. Diffidare anche delle passeggiate nei campi con sedicenti esperti di botanica che guidano alla scoperta delle erbe commestibili: se nel cestino finisce la mandragora, che assomiglia alla borragine, sono guai seri. I suoi alcaloidi provocano allucinazioni, convulsioni e insufficienza respiratoria: già William Shakespeare la evocava come simbolo di follia, segno che il fascino del “naturale” cela da sempre insidie letali.
Sicurezza prima di tutto
Vale quindi la pena di rischiare parassiti insidiosi, che dall’apparato gastroenterico arrivano poi nelle ossa, nel cervello, nei muscoli, nei reni, in pratica ovunque, in nome di un ritorno alla natura e alla genuinità? Certamente no, anche se, a ben vedere, a volte è proprio il nostro mondo artificiale e medicalizzato a spingerci verso questi comportamenti. «È vero che l’industria alimentare spesso esagera con i conservanti, gli emulsionanti e gli additivi che servono a produrre di più e conservare più a lungo», conclude Caccialanza. «Ma il paradosso è che passiamo da un estremo all’altro: per undici mesi ci imbottiamo di cibi ultra-processati pieni di antibiotici e di “qualsiasi cosa” e poi, per sentirci autentici, durante le vacanze andiamo in una malga di montagna a bere il latte crudo. Ed è una moda che può costare molto cara».
Non demonizzare i piccoli produttori
Non si tratta quindi di demonizzare i piccoli produttori, che giustamente cercano di custodire biodiversità e cultura del territorio e sono comunque soggetti alle regole imposte dalla legge. Il tema semmai è: chi li controlla, come, e soprattutto, con quale frequenza? Il problema non è il “produrre locale”, ma il trascurare la sicurezza: tra la stalla e la tavola c’è di mezzo la scienza, ed è bene che resti lì, a ricordarci che l’autenticità senza garanzie può trasformarsi in inganno.
