Mentre sempre più medici e primari lasciano i reparti di emergenza, chi sceglie di restare ne racconta le sensazioni uniche, tra stress, adrenalina e lotta per salvare vite. Perché è in trincea, raccontano, il senso di questo mestiere.
«La cazzimma, ci vuole. Se non ce l’hai, non puoi lavorare in Pronto soccorso. Ma ai giovani medici che hanno quel misto di pervicacia, abilità e coraggio, dico: venite a lavorare in emergenza e urgenza, non ve ne pentirete. Il PS è il vero faro nella notte». Non usa mezzi termini Massimo Geraci, 55 anni, primario del Pronto soccorso dell’Ospedale sivico di Palermo, il più grande a sud di Napoli con 80 mila accessi all’anno: davanti alla crisi dei PS, e delle nuove «vocazioni», gioca la carta della sfida. L’unica possibile: perché esiste ancora, anche nel disastro del servizio sanitario nazionale, «tutto il bello» di un lavoro esaltante: quello di salvare le persone.
Ma nonostante Ippocrate e il suo giuramento, la specializzazione di emergenza e urgenza soffre: non solo di abbandoni (la Società italiana Medicina di emergenza e urgenza calcola che si dimettono in media 100 medici di Ps al mese e sempre più primari lasciano i reparti) ma anche di un enorme calo di interesse da parte dei giovani: le analisi diffuse da Anaao Assomed riferite ai concorsi di specializzazione 2022 rivelano che il 50 per cento dei contratti per la medicina di emergenza non è stato assegnato; settori invece più «comodi» e redditizi come reumatologia, allergologia o geriatria fanno il pieno, con tutti i posti subito spartiti. E questo in un Paese come l’Italia, dove afferiscono in Pronto soccorso circa 20 milioni di persone all’anno.
Ma cosa si perdono, questi neo medici che preferiscono meno stress e migliori prospettive economiche all’adrenalina in «sala rossa»? Tanto, almeno a sentire chi ha fatto la scelta di gettarsi nella mischia: «La meraviglia del mondo dell’emergenza e urgenza “non può restituirtela nessun’altra specializzazione.» sostiene Eva Aiello, 30 anni, specializzanda al quarto anno al Ps Policlinico di Catania diretto da Giuseppe Carpinteri. «Noi abbiamo un contatto con il paziente quasi viscerale, lavoriamo in equipe che diventano le nostre famiglie, in un ambiente dove non esiste un giorno uguale all’altro. Io non saprei immaginarmi altrove, perché qui “viviamo” davvero la medicina, riempiamo di senso gli anni faticosi di studio».
Studio lungo e complesso (6 anni di corso di laurea, 5 di specializzazione). «Noi primari di oggi, ormai sessantenni, eravamo animati dal fuoco della passione» ricorda Paolo Groff, direttore del Pronto soccorso dell’Ospedale di Perugia. «Anche perché negli anni Novanta l’emergenza e urgenza appariva, per l’Italia, una specialità innovativa, con un approccio al paziente molto diverso dall’iter universitario della clinica medica o chirurgica».
Erano gli anni di E.R., la serie tv americana che ha fatto la storia dei medical-drama, e la percezione del medico di Pronto soccorso stava cambiando in tutto il mondo: «Analizzando il fenomeno dalla parte della sociologia del lavoro» prosegue Groff «possiamo dire che E.R. esprimeva esattamente l’affermazione di una categoria di lavoratori fino a quel momento bistrattata. Se prima gli inglesi chiamavano il Ps «la palude degli ospedali» ecco che la medicina di emergenza conquista appeal, ne parlano tutti. Noi che abbiamo iniziato allora, siamo riusciti a dare vento alle vele di una nuova specialità, con sacrifici, gavetta e nottate a cercare di produrre evidenze e pubblicazioni: nasce in quel momento la grande scuola di emergenza e urgenza di questo Paese». Ora, Groff vede i giovani scappare alla fine del turno: e se è legittimo inseguire la qualità della vita, è altrettanto vero che se oggi sono i neolaureati a dettare le condizioni di lavoro, grazie anche al numero chiuso, qualcosa non torna: «Se propongo un’assunzione nel mio reparto» continua Groff «spesso mi sento rispondere “ma sì, vedrò dopo il viaggio in Nepal”, oppure “Non so, prima proverei qualcosa di più strutturato”. Ossia più comodo. La scarsità di medici ha in parte migliorato le condizioni di vita dei professionisti, ma abbassato la qualità delle cure e il livello di preparazione e tensione: perché la competizione rende migliori».
Tanta acqua è dunque passata sotto i ponti, tra E.R. e la realtà di oggi: tra turni massacranti, rischio sanitario che spesso si traduce in denunce e risarcimenti, rottura del patto di fiducia tra medici e pazienti dovuta anche a una forte corrente anti-scientifica, i giovani laureati di adesso si trovano davanti a una situazione decisamente diversa. Ma per molti di loro, per fortuna, il giuramento di Ippocrate è scolpito nella mente: «Ho scelto il Pronto soccorso» racconta Francesca Cucuzza, 29 anni, specializzanda collega di Aiello, ormai quasi a fine percorso «perché fin da quando mi sono iscritta a Medicina ho sempre avuto come scopo quello del “prendermi cura” del malato, in maniera olistica, a 360 gradi. Riuscire a farlo anche quando tutto attorno a te è complesso, quando lo stress è alle stelle, gli infermieri ti pongono mille domande, il paziente sta male e temi possa peggiorare: ecco, quella è la mia sfida. Mantenere la calma e prendere la giusta decisione. In gioco c’è una vita, e ci siamo solo noi a poter fare la differenza». pongono mille domande, il paziente sta male e temi possa peggiorare: ecco, quella è la mia sfida. Mantenere la calma e prendere la giusta decisione. In gioco c’è una vita, e ci siamo solo noi a poter fare la differenza».
Proprio come quella volta che alla giovane dottoressa è capitata la paziente che non dimenticherà: «Una notte, quello che poteva essere un “banale” dolore all’addome si rivelò un caso molto complesso: ho pensato a un’ischemia intestinale, pur con tutti gli esami a posto. Ho insistito per una Tac: ho seguito il mio intuito, evitando così una setticemia che avrebbe potuto uccidere la signora: la diagnosi era giusta». «Questo è l’ambiente nel quale si è spesso decisivi: si cambiano i destini» spiega Fabio De Iaco, presidente nazionale di Simeu e direttore del Pronto Soccorso dell’ospedale torinese Maria Vittoria. «Per un medico è l’ambito nel quale, nel luogo più anarchico che esiste, puoi far valere la tua competenza e i tuoi valori. Ciò che sei. È una scelta esistenziale». De Iaco ne sa qualcosa. In una lunga carriera in Emergenza, c’è un caso tra i tanti che ricorda con emozione: «Un ragazzo di vent’anni, arrivato in arresto cardiaco. Una situazione disperata, 55 minuti di rianimazione. Su quella barella l’abbiamo strappato alla morte. Oggi sta bene, nessuna sequela. A Pasqua in Ps sono arrivate le uova colorate preparate dalla sua famiglia».
La responsabilità, il rischio, anche il dover fare i conti con il rimorso di non aver saputo agire in tempo; ma i giovani di oggi non vengono sempre e solo accusati di essere narcisisti e non sapersi sacrificare? «Spesso così vengono descritti i millennials» dice Umberto Longoni, sociologo e psicologo. «Eppure, in una società dove i valori sono sempre più risicati, e non per colpa loro, c’è ancora un plotone di giovani idealisti. Sarà minoritario, ma esiste». In una società di urgenze politiche, sociali, meteorologiche, in un mondo dominato dall’economia, il mito della qualità della vita è difficile da ignorare: «Ma l’emergenza, proprio perché ci viviamo in mezzo» prosegue Longoni «non smette di esercitare il suo fascino, nella medicina ma non solo. Siamo tutti in equilibrio instabile, eppure prosperano gli sport estremi. Fuor di metafora: ci sono ancora gli intrepidi, coloro che vogliono uscire dalla routine, vogliono l’adrenalina. E se indossano un camice bianco, il Pronto soccorso non morirà mai».
