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Così il Covid infierisce sulle menti più fragili

Così il Covid infierisce sulle menti più fragili

Tra coronavirus e rischio di Alzheimer c’è un legame stretto: non solo perché il virus può colpire e «ferire» il cervello, ma per gli effetti proungati di isolamento e restrizioni sulla tenuta psichica di tanti anziani.


Un cavallo di Troia del terzo millennio, che apre alla demenza le porte del nostro cervello nello stesso modo in cui i soldati greci nascosti nel cavallo di legno riuscirono – secondo l’Odissea– a espugnare la città dell’Asia Minore, nella notte dei tempi.

Una delle immagini più potenti del Covid-19, che «buca» la fortezza cerebrale danneggiando la barriera emato-encefalica, l’ha fornita pochi mesi fa il dottor Alireza Atri, neurologo e presidente dell’Mspa (Medical and Scientific Advisory Panel of Alzheimer’s Disease International) illustrando gli enormi danni che il virus causerà a lungo termine alla popolazione mondiale, anche nel campo dei disturbi cognitivi.

L’avviso di pericolo arriva anche dai ricercatori statunitensi dello studio Global Burden of Disease, da poco pubblicato sulla rivista britannica Lancet: gli scienziati, che hanno definito i risultati «scioccanti», affermano che il numero di adulti colpiti da demenza stia per triplicare, passando dagli attuali 55 milioni a 153 milioni di malati, in tutto il mondo, entro il 2050.

«Dati che non mi stupiscono, e del resto chi si occupa di demenze sperimenta questa tendenza da tempo» dice Mauro Porta, responsabile del Centro Malattie Extrapiramidali all’Irccs Istituto Ortopedico Galeazzi di Milano. «Il Covid lascerà il segno, ce lo spiega il passato: l’influenza Spagnola, per esempio, portò un enorme aumento di casi di parkinsonismo negli anni successivi, casi studiati a New York dal neurologo Oliver Sacks. Sappiamo inoltre che un’infezione virale, se interessa il cervello, può accelerare i processi degenerativi, con una sovraproduzione della proteina amiloide – responsabile dell’Alzheimer».

Dati preoccupanti, anche per il forte impatto sociale: oggi, ogni tre secondi una persona si ammala di demenza, e i costi economici – che hanno già raggiunto i 1.300 miliardi di dollari – sono destinati a diventare 2.800 entro il 2030. Intanto, negli ambulatori medici, nei consultori e nei centri di ascolto, la conferma del legame tra Covid e declino cognitivo arriva in presa diretta: «Il numero di pazienti che presenta problematiche di demenza degenerativa è cresciuto in maniera esponenziale da quando viviamo la pandemia» afferma Fabio Fichera, medico di medicina generale in provincia di Siracusa. «Aumenta anche la gravità dei sintomi, perché a parte i danni diretti del virus, l’isolamento, le restrizioni e i ripetuti lockdown hanno causato effetti disastrosi, soprattutto in territori a bassa scolarizzazione e con poche occasioni di socialità, dove tutto il carico ricade sulle famiglie».

Appunto, le famiglie: quelle che inondano di telefonate anche i centralini di Pronto Alzheimer, numero verde istituito dalla Federazione Alzheimer Italia di Milano: «Viviamo in una situazione drammatica, con richieste di aiuto cresciute anche del 100 per cento, e con uno Stato che non si sta prendendo assolutamente cura delle persone con patologie cognitive» denuncia Mario Possenti, segretario generale della Federazione. «Abbiamo un Piano nazionale demenza non aggiornato che risale al 2014 e non tiene conto del fatto che nel frattempo il mondo è cambiato. Il ministero della Salute non comprende a fondo l’impatto socio-economico di questa patologia, e quando tutti se ne renderanno conto, sarà troppo tardi».

E poi, come si diceva, ci sono gli «effetti collaterali» vissuti anche da chi il Covid non l’ha preso ma ne ha «solo» subito le conseguenze psicologiche, a breve o a lungo termine: la solitudine imposta e perpetrata per mesi, con i suoi strascichi mentali fin troppo sottovalutati dai decisori e dai «chiusuristi» a oltranza: «Non è soltanto la malattia a essersi dimostrata particolarmente crudele con gli anziani» spiega Renzo Rozzini, psichiatra e direttore del dipartimento di Geriatria della Fondazione Poliambulanza di Brescia «ma anche tutte le conseguenze mentali del tentativo di non ammalarsi o di non far ammalare: l’isolamento, il non poter vedere i nipoti come si faceva prima, il martellamento mediatico, che ci ha fatti quasi entrare in un loop di auto-lockdown; tutti questi elementi hanno un forte impatto sulla mente dei più fragili. Quindi, va da sé, sono elementi capaci di far peggiorare qualsiasi tipo di demenza».

Anche l’Alzheimer, ovviamente, che da solo costituisce quasi il 60 per cento della «torta» rappresentata dalle diverse tipologie di demenze senili: «Questi due anni di pandemia» continua Rozzini «sono ancora pochi per avere dati consolidati su quante persone siano state spinte verso l’Alzheimer e problemi simili da tutto ciò che ruota attorno al Covid, e su quanti siano peggiorati nelle loro condizione clinica: ma quando li avremo saranno notevoli».

E c’è poi un fenomeno singolare e significativo, che rappresenta in maniera plastica la situazione vissute dalle persone fragili ai tempi del Covid: sta aumentando in maniera evidente il numero di anziani autosufficienti che scelgono di vivere nelle Rsa pur non avendone bisogno: «Se prima della pandemia arrivavano in Rsa grandi anziani spesso già con gravi demenze» conclude Rozzini «ora questa popolazione sta pian piano venendo sostituita da pazienti più giovani e più autosufficienti. Come se l’isolamento conseguente ai primi durissimi lockdown stia trasformando un luogo generalmente considerato “di fine vita” in una struttura di protezione sociale, che tuteli anche dalla solitudine imposta dalla pandemia, dalle restrizioni e dallo stordimento complessivo al quale tutti, ma soprattutto i più fragili, andiamo incontro». Un «mental breakdown» indotto, dal quale sarà difficile uscire: non solo per i vecchi.

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