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Rockantenni. La reunion delle icone. In un disco

Rockantenni. La reunion delle icone. In un disco

Mick Jagger ne ha compiuti 80, Paul McCartney 81, Elton John 76 e Stevie Wonder (il più giovane) ne ha «solo» 73. I Rolling Stones, insieme ad altri «immortali» come loro, tornano con Hackney Diamonds, album evento dell’anno cui partecipa anche Lady Gaga. Ecco perché piacciono a tutte le generazioni.


Quanti degli artisti e dei gruppi di oggi incideranno un disco e faranno un tour sold out a 80 anni? Con ogni probabilità, nessuno. Per mille ragioni che poi in fondo confluiscono in una: tranne rare eccezioni (vedi i Radiohead e pochi altri) la musica di questo tempo non è fatta per durare, ma per riempire le playlist dello streaming e soddisfare i mutevoli bisogni generazionali. Nel pianeta del suono usa e getta c’è però una nutrita pattuglia di «alieni», un manipolo di settanta/ottantenni con il vizio di produrre buona musica, di lasciare ancora una volta un segno significativo del proprio passaggio sui palcoscenici e nei solchi dei vinili. Gente per cui l’anagrafe è un dettaglio opinabile. Dai Rolling Stones a Roger Waters, l’ex Pink Floyd che a ottant’anni ha pensato bene di reincidere il capolavoro The Dark Side Of The Moon, mandando in escandescenze i fan più conservatori che hanno gridato allo scempio (in realtà il remake è molto intrigante). E poi, ancora Bob Dylan (82), in tour lungo gli Stati Uniti fino a dicembre, tornato di recente sul palco imbracciando la chitarra elettrica dopo anni di spettacoli seduto al pianoforte e Ringo Starr (83), il motore ritmico dei Beatles che da qualche settimana se la spassa in giro per il mondo con la sua band.

«Alla fine degli anni Settanta era di moda scrivere che i Rolling Stones erano finiti, che la rivoluzione punk ci avrebbe spazzato via per sempre» ha raccontato Mick Jagger, ottantenne da fine luglio. «Allora mi sono messo ad ascoltare i dischi punk e mi sono chiesto: ma quanto si può durare suonando questa roba? Ok, essere arrabbiati e contro tutto e tutti può essere uno stimolo di creatività, ma per avere una carriera serve qualche abilità musicale, occorre saper scrivere canzoni. O no?». La risposta il buon vecchio Mick se l’è data solo nell’ultimo singolo dei Rolling Stones, Angry (Arrabbiato, ndr): tre minuti e quarantasette secondi di rock and roll potente, energico. Una ventata di freschezza che non si trova nei pezzi delle rock band composte da trentenni.

È solo l’antipasto del nuovo album del gruppo, Hackney Diamonds, il disco evento di quest’anno, in uscita il 20 ottobre. La fotografia di un’epoca, di una generazione di artisti che ha surfato le onde del tempo e dello spazio. Talenti che si esibiscono e incidono da sessant’anni e che hanno ancora voglia ed energie per farlo. E così, nelle tracce del disco delle pietre rotolanti (Mick Jagger, Keith Richards, 80 anni a dicembre, e Ron Wood, 76) si realizza l’incontro con l’eterno rivale dei Beatles, Paul McCartney (81), con il re del british pop Elton John (76) e il gigante della black music Stevie Wonder (73). A chiudere il cerchio, creando un ponte di collegamento con la musica contemporanea, la presenza di Lady Gaga in Sweet Sounds Of Heaven, un lampo geniale di rock, blues e gospel, realizzato tra le pareti di una piccola sala d’incisione, guardandosi negli occhi, scrutando i movimenti e il respiro dell’altro. Come una volta.

Oltre i meriti artistici, dietro la longevità di un colosso come gli Stones, c’è, bisogna dirlo, una visione strategica di mercato, un «business plan» sempre un passo avanti. Basti pensare al lancio promozionale del nuovo album con l’apparizione su un giornale locale inglese dell’annuncio dell’apertura di un’azienda, la Hackney Diamonds, specializzata nella sostituzione di vetri. Un trucchetto di marketing svelato dagli stessi Stones nei giorni scorsi: «Hackney Diamonds» è infatti un’espressione slang londinese che si riferisce ai pezzi di vetro frantumati dei parabrezza delle auto. Geniali, come sempre. In fondo quello che ha storicamente diviso i destini dei Beatles e degli Stones è che i Beatles si sono sciolti prima che il business della musica live diventasse qualcosa di strutturato e organizzato. Mentre i Fab Four si sfasciavano, nel 1969, i Rolling Stones aprivano un nuovo mercato, quello dei tour negli stadi e nelle grandi arene. Non eventi sporadici disseminati qua e là, ma un calendario di mega concerti gestiti dal manager della band che vendeva gli show delle «pietre rotolanti» ai promoter locali delle più importanti città del mondo. Solo il primo passò per diventare poi promoter di loro stessi senza alcuna intermediazione.

Non solo: Jagger e compagni hanno reinventato anche la fruizione del concerto in tempi in cui agli eventi musicali si andava più che altro per esserci. L’ascolto della musica nei grandi raduni degli anni Sessanta e Settanta era un’utopia: muri di amplificatori gracchianti inadatti alla diffusione del suono in grandi spazi. In questo contesto arrivano gli Stones con un impianto d’amplificazione di loro proprietà creato ad hoc, potentissimo, dal suono pulito e avvolgente. Anche il palcoscenico personalizzato viaggia in tour con loro insieme a tonnellate di merchandising ufficiale. È l’inizio di una nuova era della musica, dei concerti come core business degli artisti. Con i Rolling Stones davanti a tutti, accolti da folle oceaniche a Glastonbury, Hyde Park, L’Avana, Rio De Janeiro (un milione di persone sulla spiaggia di Copacabana), Mosca, Sydney. Sempre loro, sempre con il logo della lingua in scena, il brand più iconico e popolare della storia della musica. Un’avventura lunga sei decenni, leggendaria, unica e irripetibile, iniziata in una gelida mattina del 1961 alla stazione ferroviaria di Dartford, 50 chilometri da Londra, quando Mick Jagger reincontrò Keith Richards (erano nella stessa scuola alle elementari) che teneva sottobraccio due vinili di Muddy Waters e Chuck Berry. «Keith, mi piace quello che ascolti, perché non usciamo insieme una di queste sere?».

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