Miles Davis, Bitches Brew
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L'album del giorno, Miles Davis, Bitches Brew

Il disco capolavoro firmato da The Prince of Darkness: un lampo di genio lungo novanta minuti

Mentre i ragazzi della Summer of love '69 rientravano a casa dopo quattro giorni di musica, pioggia e fango e Woodstock, Miles Davis varcava la soglia del 30th Street Studio di New York. Era il 19 agosto... Nessuno, forse neanche lo stesso Davis, sapeva esattamente che cosa avrebbe prodotto l'incontro tra lui e Joe Zawinul, Chick Corea, John McLaughlin eJack DeJohnette. Insieme avevano realizzato In a silent way, ma questa volta c'erano nell'aria nuove vibrazioni.

Ai musicisti che lo accompagnavano (tra gli altri, Dave Holland al basso) non vennero date istruzioni né anticipazioni di quel che sarebbe successo. L'album che stavano per incidere, prodotto da Teo Macero, era un foglio bianco ancora tutto da scrivere (fatta eccezione per due brani Pharaoh's Dance di Joe Zawinul e Sanctuary di Wayne Shorter). L'unico input fu: suonate seguendo il leader.

E così fu, ininterrottamente per tre giorni. Decine di take, brevi lampi d genio, ma anche lunghe jam session che poi, attraverso un ciclopico lavoro di postproduzione e centinaia di taglia e incolla sui nastri sono diventate i novanta minuti di musica che attraversano le quattro facciate del doppio vinile. Che è quanto più lontano ci possa essere dal free jazz nelle sue forme più algide. Quello che uscì dagli studi newyorkesi della Columbia non fu soltanto uno straordinario e irripetibile album di jazz rock, ma molto, molto di più.


Miles Davis - Miles Runs The Voodoo Down (Live In Copenhagen, 1969)www.youtube.com


Bitches Brew è avanguardia, visione del futuro, immaginazione, un potente incoraggiamento ad un ascolto a più livelli. Come suggeriscono la monumentale title track o Miles runs the voodoo down, che cita esplicitamente Jimi Hendrix. In Bitches Brew sono fuori dal comune sia la forma che la sostanza. In questo manifesto dell'emancipazione black (la copertina, bellissima, è frutto del lavoro di Mati Klarwein, autore del disegno che appare sulla cover di Abraxas, il classico di Carlos Santana) scorrono liberi psichedelia, funk, ritmi tribali, rock, electric jazz e soul. il caos e l'anarchia che diventano suono, un suono unico, inimitabile che a cinquant'anni dalla pubblicazione del disco, è ancora bellezza e meraviglia al tempo stesso.

Ascoltare Bitches Brew, oggi come ieri, significa aprire la mente, andare oltre gli steccati del jazz e della musica in generale. E capire che c'è un po' di Bitches Brew in tutti gli artisti che hanno scelto di non morire uguali a se stessi.

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Gianni Poglio