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Il capitolo nero della saga Gucci

Il capitolo nero della saga Gucci

Il film che Ridley Scott sta girando a Milano con protagonisti Adam Driver e Lady Gaga evoca l’incredibile vicenda dell’omicidio di Maurizio Gucci da parte dell’ex moglie Patrizia Reggiani. Tra depistaggi, cartomanti, informatori, improbabili killer. Ecco la ricostruzione fatta da un giornalista di Panorama che su questa storia ha scritto un libro.


Il regista ordina il ciak, e le telecamere inquadrano Lady Gaga e Adam Driver, Al Pacino e Jeremy Irons. Dall’omicidio sono trascorsi 26 anni, e le strade del centro di Milano si aprono al cast stellare di House of Gucci, il film che vuole raccontare la storia nera del re della moda, Maurizio Gucci, e di Patrizia Reggiani, l’ex moglie che ordinò di ucciderlo. Ma nemmeno il genio immaginifico di un Ridley Scott potrà rendere la sconvolgente sequenza di colpi di scena della saga dei Gucci. Nessun film riuscirà a raccontare gli amori e gli odi, il lusso sardanapalesco e le miserevoli ripicche, i calcoli machiavellici e le incongruenti ingenuità di quella storia.

Patrizia Reggiani, che nel 2001 la Cassazione ha condannato a 26 anni di carcere come mandante dell’omicidio, commissionato a un’improbabile banda di quattro dilettanti del crimine per 600 milioni di lire, è tornata libera nell’ottobre 2016. La giustizia l’ha inchiodata a un doppio movente, psicologico ed economico: il delitto avrebbe garantito a lei e alle due figlie, Alessandra e Allegra, un’eredità multimiliardaria, e l’avrebbe anche risarcita della ferita inferta alla sua «personalità narcisistica» dall’intenzione dell’ex marito di risposarsi con Paola Franchi, bella signora milanese.

Il rancore di Patrizia era emerso pubblicamente fin dal 27 marzo 1995, il giorno dei quattro colpi calibro 7,65 sparati contro Gucci da una pistola con un silenziatore improvvisato. Il killer aveva seguito la sua vittima nell’androne dell’elegante palazzo milanese affacciato sul parco di via Palestro, dove l’imprenditore aveva l’ufficio. Quel giorno, Patrizia aveva commentato la notizia regalando ai quotidiani una frase di ghiaccio: «Umanamente mi dispiace, ma dal punto di vista personale non posso dire la stessa cosa».

Da allora, però, l’ex moglie ha sempre protestato la sua innocenza. E anche dopo i tardivi arresti del gennaio 1997, per oltre vent’anni Patrizia s’è detta vittima di un’estorsione ideata dall’amica napoletana, la cartomante Pina Auriemma, e dagli altri tre autori materiali del delitto. Due mesi fa, accettando chissà perché di partecipare a un documentario realizzato da Discovery channel sulla vicenda, ha invece ribaltato tutto e candidamente ammesso i cupi desideri di morte accarezzati tra il 1994 e il 1995: «Andavo in giro» ha detto «e a tutti, anche al salumaio, chiedevo se ci fosse qualcuno che aveva il coraggio di ammazzare mio marito».

Questa, in effetti, non è proprio una novità. Già durante le prime indagini, nella primavera 1995, il pubblico ministero Carlo Nocerino aveva appreso dalla viva voce di alcuni testimoni che negli ultimi mesi Patrizia pensava intensamente all’omicidio come lo strumento per risolvere tutti i problemi. Al suo avvocato, Cosimo Auletta, Patrizia aveva chiesto che cosa potesse rischiare, dal punto di vista penale, se avesse fatto uccidere l’ex marito. E alla coppia dei governanti di casa aveva chiesto addirittura di trovarle un killer a pagamento. Il magistrato però aveva preferito spingere le ricerche in tutt’altra direzione. In Svizzera, per esempio, dove per qualche mese Nocerino aveva battuto la pista di presunti interessi mafiosi sul progetto di un nuovo casinò a Crans Montana, cui Maurizio pareva essersi dedicato. E perfino in Giappone, dove Gucci aveva stretto strani legami finanziari con Delfo Zorzi, il neofascista mestrino indagato per la strage di piazza Fontana del 1969, e latitante dal 1972.

Per quanto promettenti, quei due suggestivi filoni d’indagine non avevano portato risultati. Nocerino, però, non era tornato sui suoi passi. Non aveva mai più approfondito la pista dell’ex moglie. Anche per questo, nel documentario andato in onda due mesi fa su Discovery, è suonata beffarda l’ammissione resa da Patrizia. Soprattutto quando ha pronunciato queste parole: «Io ho un difetto, non riesco a mirare giusto: quindi non lo potevo fare da sola. Così ho trovato questa Banda Bassotti che me l’ha fatto».

Per i quattro complici di Patrizia, in realtà, sarebbe meglio parlare di Armata Brancaleone: un’amica cartomante, un pizzaiolo siciliano, un disoccupato e il portiere di un albergo a ore. Dopo quasi due anni d’indagini a vuoto, all’inizio del 1997 gli inquirenti milanesi erano riusciti a individuarli soltanto grazie alla soffiata di un informatore. Ospite dell’Hotel Adry, un piccolo hotel senza pretese dalle parti di piazzale Loreto, e che oggi non esiste più, l’informatore aveva origliato i discorsi del portiere e dei suoi complici. I quattro s’incontravano nell’alberguccio perché avevano scoperto che l’uomo che avevano ucciso valeva svariate centinaia di miliardi. Avevano capito, quindi, che l’eredità incassata dalla mandante del delitto era a dir poco cospicua e, sentendosi raggirati sul compenso, si erano determinati a chiederle molto di più.

L’informatore aveva spifferato tutto al capo della Criminalpol milanese, Filippo Ninni. E quello, in quattro e quattr’otto, aveva ideato una trappola che, a ripensarci oggi, sembra uscita da un romanzo: Ninni aveva chiamato uno dei suoi agenti e l’aveva trasformato in «Carlos lo spietato», un killer dei cartelli della mafia colombiana. Garantito dall’informatore, Carlos si era proposto agli amici dell’Hotel Adry per estorcere alla Reggiani qualche centinaio di milioni in più. I quattro erano subito caduti nell’inganno, come polli, e s’erano affidati a quel nuovo alleato. Ignari delle cimici nascoste dalla Criminalpol, a Carlos avevano raccontato per filo e per segno tutta la storia del delitto. A quel punto, erano scattate le manette.

Oggi nemmeno il più fantasioso dei film potrà mai rendere efficacemente una trama tanto strepitosa e folle, crivellata dai colpi di scena. L’ultimo è avvenuto pochi mesi fa. In dicembre Alessandra e Allegra Gucci, le due figlie di Maurizio che oggi hanno rispettivamente 44 e 39 anni e per molto tempo si sono battute per l’innocenza della loro mamma, sono state condannate dalla Cassazione a versarle 20 milioni di euro, più un vitalizio di un milione l’anno.

La condanna è il risultato della causa intentata da Paola Franchi a Patrizia per la morte di Gucci: nel 2014, tra danni morali e materiali, il risarcimento era stato quantificato in 692 mila euro. Il problema è che Patrizia risulta nullatenente. Così Paola ha spostato la causa contro le altre due legittime eredi di Maurizio: le figlie. Nell’ultimo giudizio in Cassazione la vicenda ha assunto tinte surreali perché Paola e Patrizia si sono trovate affiancate contro Alessandra e Allegra, in un’alleanza a dir poco inquietante, che fa sì che le colpe della madre ricadano sulle figlie. Infatti le eredi di Maurizio Gucci saranno costrette a versare all’ex moglie – che l’ha fatto uccidere – un milione all’anno più il risarcimento di 692 mila euro da girare appunto a Paola Franchi.

Chissà se qualcuno riuscirà mai a spiegare i meandri della giustizia italiana a Ridley Scott. Per quanto geniale, un americano non potrà mai arrivarci.

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