Tra giovani bellissime e donne reali. Immagini da copertina e «fashion show» sfolgoranti. Il potere della moda e dei media. Armani, Prada, la Mondadori, gli imprenditori, i politici. L’amore per la carta stampata che non passa. Un mondo. Carla Vanni ha diretto Grazia per quasi trent’anni. È tra i direttori che hanno segnato la storia dell’editoria in questo Paese. Quando, poco più che ventenne, comincia il suo percorso nella «rivista femminile» sono gli anni Sessanta e c’è ancora il boom («Grazia rassicurava; era “rosa” e non moriva mai nessuno negli articoli»). Poi, tutto cambia e anche il settimanale accompagna le trasformazioni delle italiane, tra lavoro, sentimenti, famiglia, sesso, il gusto per il modo di vestirsi e la voglia di piacersi. E così, con lei, Grazia si arricchisce di altri colori. Arrivano firme importanti del giornalismo, critici d’arte, psicanalisti, scrittori… Sono alcune note sparse sul Diario incompleto (di giornalismo e di moda) che Carla Vanni ha appena pubblicato per Rizzoli.
Strano ma vero, da giornalista è poco incline all’autobiografia. E il libro, infatti, è anche un racconto di periodi cruciali per l’Italia, ricco di personaggi, incontri, tensioni sociali, suggestioni e, naturalmente, moda. Sì perché attraverso questa – che è una significativa voce economica, è bene ricordarlo – si interpreta anche il presente. Tra le pagine, ecco volti celebri e molto diversi. Karl Lagerfeld, stilista severo e geniale per Chanel, Chloé, Fendi, che con «l’amica Carla» – si scopre leggendo – ha lasciato aperto un debito artistico. C’è Silvio Berlusconi alla conquista della storica casa editrice di Segrate – che fino a pochi mesi fa ha mandato in edicola Grazia prima di venderlo a un gruppo straniero. Così come c’è l’icona rock Eric Clapton, che di notte suona la chitarra su una panchina a casa di Giorgio Armani a Pantelleria. Carla Vanni è un direttore che si appassiona, osserva, ricava spunti che riprende sulle pagine del suo settimanale. Possono essere nuovi musei con i quadri di Francis Bacon o un mercatino dell’antiquariato, che continua a frequentare in cerca di cose che la possano stupire.
Sessant’anni di lavoro. Di sfilate e passerelle. E migliaia di copertine immaginate e costruite. Chi scrive ha lavorato con lei: che è esigente ma ironica, innamorata della moda, ma pure dell’arte contemporanea, dei libri un po’ speciali, di sguardi differenti sulla realtà. Asciutta nei discorsi e affilata nelle battute come sanno essere i livornesi – è nata sul mare – sapendo come funziona il teatro degli effimeri rapporti umani. Nel Diario si segue la giovane Carla Vanni nei suoi servizi di moda, dal Kashmir al Vietnam o al Brasile, quando le fotografie delle modelle facevano sognare al pari dei luoghi esotici. E poi flash personali, intimi, di quando si fanno i bilanci della vita, eppure c’è ancora voglia di alzare lo sguardo da terra. Come succede nelle ultime pagine del libro, in uno scatto recente di Carla Vanni dentro un’architettura avveniristica, a Città del Messico. Lei affacciata sullo spettacolo di un altro giorno.
Nel Diario dice che per il suo mestiere ci vuole una salute di ferro. E poi?
La voglia di raccontare tutto quel che succede, moda, bellezza, la vita. Alle lettrici ma anche ai lettori.
Com’era lo stile del suo Grazia?
Sofisticato ma in modo semplice. La foto costruiva la formula, mescolando il «pezzo» di moda forte a quelli più economici. Senza imporre uno stile omologato, si presentavano le novità per permettere di scegliere. Il vestito come espressione di una donna che rivela quello che è, o al contrario giocando, ciò che vuole apparire in quel momento.
Condivide le attuali accuse del femminismo sul patriarcato?
No. Eliminiamo un termine usurato come «femminismo». Da sempre penso che le donne abbiano una marcia in più, e ogni generazione deve fare la battaglia per trovare le sue parole. Però sono ancora vergognosamente svantaggiate per opportunità di carriera e stipendio.
Perché il made in Italy della moda è riuscito a tener testa a Inghilterra o Francia?
Gli italiani sono capaci di avere successo in realtà competitive e hanno trovato una cifra caratteristica che è stata anche copiata. A certe sfilate di Calvin Klein, a New York, sembrava di vedere i vestiti di Armani.
E in un gioco di definizioni, come definirebbe Armani?
Extra-ordinario.
Versace?
Vitale, sferzante. Mi piaceva perché era autentico. Non rinnegava nulla di quello che era stato. Andavamo a cena da lui e tutto era familiare, con le tovaglie bianche che profumavano di bucato…
E Valentino?
Le sue donne sono nate per essere belle.
Prada?
Il brutto che diventa bello.
Missoni?
L’arte che si fa vestito.
Dolce&Gabbana?
Sacro e profano. Con le loro madonne.
Fendi?
Ma è una pelliccia?
Che cosa vorrebbe trovare nei giornali, oggi?
Un po’ meno attrici. E più contenuti. Pezzi brevi, ma che ti incuriosiscano. Il mio metro è quello di Luigi Pintor: in 60 righe di giornale si può dire quasi tutto.
Perché le piace tanto la carta?
Il suo odore mi fa sentire a casa.
Che cosa voleva dire vivere e lavorare a Milano negli anni Sessanta?
È stato difficile ed entusiasmante. Bisognava faticare. La città cambiava, iniziavamo tutti… La mia amicizia con tanti stilisti – Armani, Krizia – nasce dall’aver condiviso quel periodo di fervore.
Trova Milano peggiorata?
È internazionale, più di Parigi. Accadono molte cose, però restano chiuse nel loro ambito. Penso a questi grattacieli che spuntano senza un disegno complessivo. Io abito in un quartiere dove c’era la «mala» ma aveva personalità. Oggi, come tutta Milano, sta diventando uguale a tanti altri posti.
Che effetto le fanno gli uomini che indossano gonne?
L’altra sera, alla presentazione di un libro, si parlava «di quando le donne hanno avuto la libertà di indossare i pantaloni per essere come gli uomini». E un’affermazione che mi ha infastidito. Non si indossa qualcosa «per essere come…», ma perché si sceglie. Punto. Un uomo con la gonna m’incuriosisce, poi magari mi fa ridere.
Nella sua carriera ha partecipato a infiniti eventi. Il più divertente?
Be’, fu formidabile una cena con Giulio Andreotti a casa di Carla Fendi, a Sabaudia. Un pomeriggio per decidere la disposizione dei posti. Lamberto, il figlio di Andreotti, era con il suo compagno e non voleva che la madre lo scoprisse. Da poco, poi, era uscito al cinema Il divo di Paolo Sorrentino e la consegna era: «Vietato parlarne!». Tutto andò bene, invece. Con Andreotti spiritosissimo. Alla fine raccontò anche che aveva visto il film su di lui. E gli faceva schifo!





E il suo Berlusconi?
Ricordo una visita a Villa San Martino con la mia redazione. Dopo averci suonato al pianoforte Mon amour, il Cavaliere ci fa entrare nella Cappella di famiglia e subito… attaccano altissimi canti gregoriani! Berlusconi si mette in ginocchio. Io, accanto a lui, pietrificata. Gli altri ridacchiavano dietro di me. Perfidi. Alla fine però sono rimasta in piedi.
La copertina prediletta che ha pubblicato?
Mi viene in mente quella con Diane Kruger su uno Speciale moda: lei meravigliosa, con un vestito splendido, chiaro, e, in mano, un panino con la mortadella. Bellezza e spontaneità.
Ha nostalgia di Livorno?
Mi manca il suo spirito, disincantato eppure realista. Persino la sua aggressività intellettuale. Anni fa ci sono tornata e ho fatto il bagno ai Bagni Pancaldi, nuotando fino allo «scoglione» da dove ci tuffavamo da giovani. Un colpo al cuore, appoggiare il piede nello stesso anfratto di allora.
Lei si rifugia da sempre in una piccola casa bianca tra i boschi di Appiano Gentile, nel Comasco…
Lì ci sono pini e castagni. E la mia vita di prima.
Che cosa la elettrizza oggi?
È difficile che veda «l’effetto novità». Tante cose riesumate, banali. Certo che si può guardare al passato, ma deve contenere già semi di futuro.
Uno stilista sopravvalutato?
Ce ne sono vari, ma niente nomi.
Uno che farà parlare di sé?
Non ho visto ancora Sabato De Sarno di Gucci… A dicembre scorso avevo deciso di chiudere con le sfilate. Un modo per lenire il distacco, forse. A febbraio però dovrò vederle, perché ho accettato una consulenza per il giornale Beau, a Parigi, e per Grazia America. Risalgo sulla giostra.
Ha curato edizioni di Grazia in tutto il mondo: cosa cercano i cinesi dell’Italia? E gli indiani?
I cinesi vogliono i vestiti da copiare. Gli indiani mi piacciono perché sono curiosi, ricettivi. Credo che siano loro «il nuovo».
Ma lo stile s’impara?
Puoi imparare a vestirti bene, ma l’eleganza è un’altra cosa. Se compro un vestito non lo indosso mai nella stessa stagione, non amo «essere alla moda».
Lei porta sempre il colletto della camicia alzato e continuano a volerglielo sistemare, come spesso si è lamentata?
Sì (ride)… È una cosa che mi fa impazzire!
Che cosa vorrebbe fare adesso?
Un giornale di «interior design» diverso, finalmente con dentro la realtà quotidiana. Però sarà in un’altra vita.
