Durante l’ultima dimezzata settimana di haute couture parigina, una manciata di giorni dal 7 al 10 luglio, che ha visto dei buchi in calendario con l’assenza di Dior e di Valentino, è emerso un nuovo tormentone comportamentale, legato a un vocabolo molto in voga in questo momento di povertà semantica e di contagi linguistici.
Le parole, si sa, non sono così esclusive come gli abiti in questione, e così nel vocabolario del dorato mondo delle compratrici di alta moda arriva il termine «experience». Il marketing vince ancora una volta e, imponendo le sue logiche, solca i sentieri delle espressioni verbali con parole arate, talmente abusate da farne perdere il significato autentico, come succede appunto con il sostantivo «esperienza».
Non si va al ristorante per mangiare, ma per fare un’esperienza culinaria, non si frequentano i musei per vedere i quadri, ma per una visita esperienziale, non si fa un viaggio per vedere nuovi posti ma per «esperire in maniera immersiva luoghi diversi» per citare la pubblicità di una nota agenzia di viaggi.
Quindi ora tocca alle miliardarie del globo, arabe, messicane, brasiliane, indiane, europee essere invitate a fare la loro esperienza di shopping. Sì, perché se una volta, dopo le sfilate di alta moda di Parigi, era il couturier, accompagnato dalle sue fidate premier e da qualche mannequin, ad andare nei palazzi, oppure nei saloni dei grand hotel a mostrare, in forma privata, le collezioni per poi prendere ordini e misure, ora a queste donne eleganti e danarose, non coronate, ma in carriera o ben accasate, viene offerta l’esperienza personalizzata del viaggio a Parigi.
Ogni maison ha una rosa di clienti affezionate che invita, a proprie spese, a trascorrere qualche giorno nella capitale francese per vedere in prima fila lo show, naturalmente, ma anche per visitare il Louvre a porte chiuse, per cenare in un ristorante stellato, magari seduti accanto a Beyoncé, per assistere a un concerto per pochi intimi. Insomma per fare appunto un’esperienza esclusiva come gli abiti che poi andranno a ordinare, costosi, molto costosi, o inarrivabili. Magari gareggiando tra chi ha più capacità di spesa, con cifre che non vanno mai al di sotto di un milione di euro a stagione.
Un momento straordinario, indimenticabile soprattutto per le compratrici extraeuropee, come le asiatiche arricchite di nuova generazione, come le sudamericane bulimiche di moda italiana e parigina, oppure come le arabe per le quali lo shopping è una ragione di esistere.
Insomma una trovata di business straordinaria ammantata di generosità e gentilezza estrema da parte delle maison. Ma anche un’arma a doppio taglio. Perché può succedere, come è successo, che alcune clienti declinino l’invito griffato per non sentirsi in dovere di comprare abiti che poi lasceranno in armadio o al massimo regaleranno a qualche evento di charity.
I ben informati sostengono che questo diniego si sia verificato con alcune storiche clienti di Valentino, per nulla ammaliate dallo stile di Alessandro Michele, l’attuale designer della maison. Che guarda caso, per la prima volta nella sua storia, iniziata a Roma nel 1960, non ha presentato la collezione di haute couture a Parigi, come di consueto dal 1962.
Diversa la motivazione dell’assenza di Dior, dovuta al cambio di trono alla direzione creativa: lascia Maria Grazia Chiuri e arriva Jonathan Anderson, che esordirà con la sua prima collezione di prêt-à-porter in ottobre.
Non sarà così per Demna Gvasalia che ha salutato la capitale francese con la sua ultima collezione di alta moda per Balenciaga, dopo 10 anni di direzione creativa, e che lancerà la sua estetica per Gucci non a settembre, bensì a febbraio durante la fashion week milanese.
Anche Giorgio Armani non era a Parigi, nel backstage della sfilata di Armani Privé, per la prima volta in 20 anni di alta moda: la sua convalescenza lo ha costretto a Milano, ma vigile e a stretto contatto con i suoi collaboratori collegati con Ipad e cellulari, per prendere direttive e, si sa, anche qualche rigoroso rimprovero, in stile signor Armani.
Parterre come sempre strepitoso quello di Schiaparelli, griffe che con la direzione creativa di Daniel Roseberry ha rinvigorito il suo appeal di brand da collezione sia a livello di abiti che di accessori. E non è un caso che il Victor & Albert Museum di Londra, a marzo 2026, dedicherà a Schiaparelli la mostra dal titolo Fashion becomes art. Con sommo orgoglio di Diego Della Valle che nel 2007 ne acquistò il marchio con tutto l’archivio.
