“No, grazie!”. A tutte le richieste che le sono arrivate. Di vendere, svendere, dividere o condividere la sua azienda. Così rispose Emiliana Martinelli, presidente e direttrice creativa di Martinelli Luce, un’azienda storica lucchese che produce apparecchi illuminanti e dopo 70 anni di attività non ha ancora ceduto al fascino di chi vorrebbe acquisire la sua azienda. Sembra strano, oggi, dover sottolineare certi concetti. Ma la verità è che le società storiche del design italiano stanno passando di mano a un ritmo sconcertante da diversi anni, sempre più spesso acquistate da gruppi esteri.
Ecco perché, quando si incontrano persone come Emiliana si rimane stupiti due volte. Anche se stupirsi che un’azienda sia guidata da una donna, e che quella stessa azienda sia ancora di proprietà di una famiglia italiana, si porta dietro una nota di malinconia. L’ennesima conferma del cambio dei tempi, ed anche che la tenacia, la passione e l’amore verso il mondo del design italiano ancora perdurano. Una passione per il “fare”. Lei che non solo progetta ma anche monta gli stand fieristici, nata e cresciuta in un’officina dove ha imparato tutto grazie a suo padre, che fin da piccola la portava con sé al lavoro e le diceva “stai lì, guarda e ascolta”.
Ma questi sono sentimenti che albergano ancora solo in chi ha vissuto appieno gli anni d’oro del design puro, i ’60 e i ’70, quello dei Mendini, dei Sottsass, dei Castiglioni, dei Giò Ponti, dei De Lucchi, dei Gae Aulenti. Anni in cui la matita correva libera sul foglio e non si badava a nulla, se non a lasciare una traccia indelebile nel design italiano.
Siete un’azienda famigliare. Una specie in via di estinzione. Lo sa?
Ha ragione ma noi ci proviamo, combattiamo tutti i giorni. Ci si ritrova anche la domenica a parlare di lavoro, durante i pranzi di famiglia. È iniziato tutto da mio nonno, e ci auguriamo che la storia prosegua con i nostri nipoti. Per ora siamo alla quarta generazione. Facciamo e disfiamo come ci pare, senza dar conto a nessuno. È una grande libertà che devi poterti permettere e probabilmente esserti guadagnata sul campo. Si rischia, si sperimenta, si mandano avanti i giovani, gli uffici sono aperti e tutti sanno cosa succede ovunque, qui dentro.
Tante le società italiane sVendute. Come si resiste alle tentazioni?
Siamo sempre meno. I grossi marchi stanno vendendo uno dopo l’altro. A volte per mancanza di eredi o di fondi. Anche a noi hanno fatto diverse proposte, anche quest’anno. Vorrebbero acquisirci, in toto o in parte ma abbiamo declinato ogni proposta. Finché ci divertiamo e la nave naviga sicura in mare aperto, non ci fermiamo. Non mi piace l’idea di vendere quella che considera la mia famiglia, la mia casa, perché nonostante la garanzia di mantenere una posizione in azienda, dovrei comunque rendere conto a qualcun’altro.
Il riconoscimento di marchio storico vi rende a tutti gli effetti ambasciatori del nostro made in Italy.
La notizia è arrivata a maggio. Un atto per nulla scontato, perché come sappiamo le aziende di design che ancora parlano italiano sono poche. Aggiungiamo poi il fatto che siamo una società familiare, ed otteniamo così un quadro difficile da replicare.
Quanto vale il Made in Italy? Dall’Italia spesso si perde la percezione.
La percezione del Made in Italy è tutt’altro che sbiadita, all’estero più che dentro i nostri confini. I clienti ricercano qualità, dettagli e unicità e nei nostri marchi trovano quel che desiderano.
Imprenditrice, progettista e art director. Come riesce a far convivere tutti questi ruoli?
E faccio anche molto altro! Mi piace dipingere, faccio mostre. Vado a letto tardi, mi sveglio presto, ho i taccuini pieni di idee e di impegni, sono agitata di natura. Sono appassionata, di design certamente. Mio padre mi ha trasmesso la cultura del “fare”. Ho imparato che nulla è fine a sé stesso. Da un evento, può nascere un incontro, da lì, nuove collaborazioni. Finché mi divertirò non smetterò di vivere la mia vita e la mia professione in questo modo.
Da donna, come si sta oggi nel mondo del lavoro?
Meglio di vent’anni fa. Non è un mistero che le donne fossero discriminate, sempre un passo indietro. Oggi le cose sono cambiate, anche se a capo delle aziende importanti si trova quasi sempre un uomo. Nel mondo del design vale la stessa regola, nonostante la presenza femminile negli istituti sia fitta. L’ostacolo sta proprio nell’accesso al mondo del lavoro, si guarda una donna pensando a quanti figli farà, invece che porre l’attenzione sulla creazione di strutture che possano accogliere le mamme e i loro bambini. Modelli illuminanti come quelli proposti da Olivetti negli anni ’30 del secolo scorso, che mettevano a disposizione dei genitori dipendenti numerosi servizi sociali per l’infanzia, asili, attività formative e sportive. Quasi cento anni fa, una visione duecento anni avanti.
C’è luce decorativa e poi c’è l’illuminotecnica.
Siamo nati nel decorativo. Negli anni ‘80 e ‘90 ci siamo spostati sull’architetturale, che ci ha permesso di entrare negli studi di architettura e realizzare quindi centri commerciali, strutture ricettive o ristoranti. Oggi non credo ci sia più grande distinzione, a meno che non si parli di un prodotto ultra-tecnico da museo, ad esempio, un sagomatore che proietta la luce in un punto preciso su una tela. Il nostro prodotto è un tecnico decorativo, non tecnico al 100%.
Parliamo di lampade e di forme. Cosa è cambiato rispetto agli inizi?
È cambiato l’approccio nel disegno, nel pensiero e nella produzione. È cambiato il modo di progettare, seguendo le evoluzioni delle sorgenti luminose. Ad ogni rivoluzione, bisognava rivedere il modo di intendere la luce, si modificavano gli alimentatori, i trasformatori, i dissipatori, le dimensioni. È difficile e affascinante rivedere tutti gli aspetti di un corpo illuminante in base all’evoluzione delle tecnologie.
Funziona tutto ciò che è modulare, che si pensa di poter comporre a proprio gusto. C’è questo dietro l’idea del moderno candelabro Multidot disegnato per voi da Brian Sironi?
Il progetto portato avanti con Brian è un candeliere. Sentivamo il bisogno di tornare a forme classicheggianti, senza tuttavia eccedere. Così è nato un prodotto modulare e modulabile che offre la possibilità al cliente di realizzare la figura che vuole. Le forme di un corpo illuminante storico, la linearità della modernità; ricorda il passato ma allo stesso tempo il led e la sfera luminosa lo proiettano nel futuro.
Senza tempo e al di là delle mode. Penso alla lampada Pipistrello, a Gae Aulenti. Come si entra nell’immaginario collettivo? Cosa rende immortale una lampada?
La Pipistrello è un pezzo immortale. Gae Aulenti era una giovanissima designer quando l’ha progettata, era il 1965. Sopravvivere a 55 anni di catalogo, non è uno scherzo. Ancora oggi è richiestissima. Fare un’analisi è difficile, come anche spiegarsi il perché. Se ci fosse una formula sarebbe più semplice la nostra vita come produttori e progettisti. Saranno le forme, le dimensioni, il nome del designer, la semplicità e la forte idea espressiva. Chissà. Forse l’oggetto diventa arte, e quell’arte diventa fruibile da tutti perché prodotta su vasta scala. È l’idea di possedere qualcosa che fa parte della storia, un’icona accessibile, vista magari in un film o in un museo. Altre lampade hanno goduto dello stesso destino, come la Ruspa (di Gae Aulenti), il Cobra (disegnata da me e da mio padre Elio Martinelli), l’Elica di Brian Sironi, che ha vinto anche il Compasso d’oro. Penso ad altri marchi e mi vengono in mente lampade mitiche come la Tolomeo di Artemide disegnata da Michele De Lucchi e Giancarlo Fassina nel 1987, l’Atollo di Oluce disegnata da Vico Magistretti nel 1977. Pezzi che tutti conoscono e che tutti ancora vogliono, in Italia e soprattutto all’estero.
Come nascono le vostre collaborazioni con i designer? E i nuovi talenti? Ne esistono ancora?
Con Gae Aulenti è stata una conoscenza nata negli anni ’60 grazie ad una persona in comune. Ancora oggi continuiamo con l’idea di coltivare i giovani. Anche con Brian Sironi vale lo stesso approccio. Abbiamo iniziato a lavorare insieme nel 2009, aveva 32 anni. Mi piace girare per il Salone del Mobile e nel Padiglione Satellite, l’area dedicata ai talenti emergenti, e venire fermata da ragazzi che arrivano da qualunque parte del mondo e mi mostrano i loro lavori. A volte le collaborazioni nascono anche così. Guardiamo poi con attenzione alle scuole e creiamo concorsi di design.
Le mani che lavorano, le menti che creano. C’è carenza?
A Lucca il personale manca, soprattutto in officina e nel comparto amministrativo. Siamo sempre alla ricerca di giovani, andiamo negli istituti, nelle scuole, ma è davvero difficile.
Sperimentazione, ricerca, sviluppo tecnologico: i tratti distintivi dei vostri progetti.
Sperimentiamo ogni giorno. L’apparecchio non è fatto solo dalla forma in sé, ma anche e soprattutto dal materiale, dall’elemento meccanico, dal movimento che la lampada avrà nello spazio, e anche dell’elettronica, come il comando touch.
Materiali. Cosa vince oggi sul mercato? Non parliamo di mode ma di tendenze.
Non badiamo troppo alle mode. O meglio, le guardiamo, perché bisogna conoscere tutto, ma con sereno distacco. Non ne siamo schiavi, restiamo sempre fedeli alla nostra filosofia prima di tutto. A livello di materiali, guardiamo con attenzione a quelli così detti sostenibili, ma il loro costo li rende efficaci e utilizzabili più sulla carta che non nella realtà.
Chi rappresenta il vostro fatturato?
Il paese più forte in termini di fatturato è la Francia. Poi ci sono il nord Europa, l’America, la Corea, le Filippine, l’Australia. In Italia il fatturato si attesta intorno al 10%, in Europa al 60-70%. Il mercato del futuro è americano e cinese.
Perché la gente vi sceglie?
Scelgono Martinelli per ciò che rappresentiamo, per la nostra filosofia. Sarebbe sbagliato realizzare una lampada perché di tendenza, si rischierebbe di snaturare il nostro dna. Un oggetto, anche bello, non entrerà mai in produzione se non ci rappresenta appieno. Quando chiediamo ad un designer di creare qualcosa, la legge è quella della continuità. Come la continuità familiare che ci caratterizza.




