Intervista a Giuseppe Tornatore: «La sala cinematografica rimarrà sempre»
Giuseppe Tornatore (Foto: Stefano Schirato/Pesaro Film Festival)
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Intervista a Giuseppe Tornatore: «La sala cinematografica rimarrà sempre»

A 35 anni da Nuovo Cinema Paradiso, film premio Oscar proiettato in versione restaurata al Festival di Pesaro, il regista ci parla di creatività, «sicilitudine» e salute del cinema italiano: «Non è da valutare solo dagli incassi in sala. In realtà c'è una vitalità incredibile»

Il film che per eccellenza è una delle più limpide ed emozionanti dichiarazioni d’amore per la settima arte? Nuovo Cinema Paradiso, negli occhi affamati di pellicola del piccolo Totò Cascio e nella saggezza ironica di Philippe Noiret. Già al suo secondo lungometraggio, a fine anni ’80, Giuseppe Tornatore siglava il suo capolavoro da Oscar che, alla Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro appena chiusasi, è stato proiettato nella versione restaurata, in occasione del suo trentacinquesimo compleanno.
Dopo aver omaggiato l’amico e collaboratore Morricone con Ennio nel 2021, il regista siciliano anelante alla grandezza ora sta lavorando a un nuovo film ma, quando lo raggiungiamo al telefono proprio mentre è ospite del festival marchigiano, non ci vuole svelare niente: «Sono quasi in pre-produzione, ma non posso dire di più». E sorride.

Il Pesaro Film Festival le ha dedicato un’ampia retrospettiva, dagli esordi con Il camorrista (1986), passando per Stanno tutti bene (1990) con Marcello Mastroianni, Una pura formalità (1994) con Gérard Depardieu, La leggenda del pianista sull'oceano (1998), La migliore offerta (2013), fino a Ennio e sicuramente non dimenticando Nuovo Cinema Paradiso, che le è valso un premio Oscar. C’è un suo film a cui è più affezionato e se sì perché? E magari uno che, a posteriori, avrebbe fatto diversamente?
«Probabilmente oggi li farei tutti diversamente, perché col tempo la capacità di gestire una professione come questa si arricchisce di nuove riflessioni e nuove esperienze. Quindi probabilmente oggi farei tutto in un altro modo, non so se migliore o peggiore. Rispondendo alla prima domanda, invece, non riesco mai a decidere a quale dei miei film sono più affezionato: non so scegliere, mi sembra di fare un torto agli altri. Li ho amati tutti, quelli venuti bene come quelli venuti meno bene o non riusciti per niente. Li amo allo stesso modo e non riesco a fare discriminazioni».

Ci sono registi che realizzano film frequentemente, tipo uno all’anno. Penso a Woody Allen, ad esempio, che ha nel cinema la sua psicoterapia. In Italia Pupi Avati. Lei sembra più riflessivo. Ha qualche effetto terapeutico anche su di lei fare film e con che tempistiche si muove la sua creatività?
«Ho sempre invidiato i colleghi che fanno un film all’anno. Quando incontro Pupi Avati gli chiedo: “Ma come fai?”. Lui mi spiega qualcosa ma io non sono mai riuscito a metterlo in pratica. Solo un paio di volte ho vissuto il brivido di fare due-tre film uno dietro l’altro. In realtà fu una bella esperienza: feci Una pura formalità e L'uomo delle stelle. Da un lato mi piace l’idea, ma dall’altro non amo il concetto che, pur di fare subito un film, debba farne qualcuno che mi persuade meno. Piuttosto preferisco aspettare. Quindi qual è la mia terapia? È curare più storie: mi innamoro di vari soggetti, li inseguo, poi cerco di capire di quali mi posso innamorare veramente. Quando scopro i veri amori lascio perdere le infatuazioni e mi dedico solo a quei film. In realtà vivo come se stessi facendo sempre e costantemente un film. Però ne faccio solo quando sono veramente persuaso».

Un'immagine del film "Nuovo Cinema Paradiso" (Foto: Pesaro Film Festival)

Ha lavorato con grandi attori e attrici: da Marcello Mastroianni a Tim Roth, da Monica Bellucci a Ksenia Rappoport… Con qualcuno di questi ha creato un legame speciale?
«Con diversi. Con Philippe Noiret era nata una bellissima amicizia, come con Marcello Mastroianni. Con Ksenia Rappoport ci sentiamo sempre, è rimasto un rapporto personale. E anche con Geoffrey Rush, che è un attore che adoro e con cui mi piacerebbe lavorare di nuovo. In genere sì, poi magari non ci si frequenta ma ci si scrive e capita a distanza di anni di incrociarci in un festival. Ed è bellissimo ritrovarsi. Ho sempre avuto bei rapporti con gli attori e le attrici. Con Monica Bellucci ci sentiamo e ci frequentiamo».

Fieramente siciliano, la Sicilia è anche in molti suoi film, ovviamente Baarìa, che ha una forte componente autobiografica, e anche in Nuovo Cinema Paradiso, Malèna… La Sicilia, e quindi un modo di sentire prettamente siciliano, è la sua musa anche quando non compare direttamente?
«Credo di sì, anche se non glielo so spiegare in maniera chiara. Però sono sicuro che nei film non siciliani ci sia altrettanta Sicilia che in quelli di ambientazione evidentemente siciliana. Perché il mio modo di vedere le cose, di approcciare i personaggi, di elaborare le storie che mi piacciono subisce necessariamente l’influenza del mio carattere, dell’educazione che ho ricevuto. Io sono nato e vissuto in Sicilia fino all’età di 27 anni. Giuseppe Tomasi di Lampedusa diceva che i siciliani devono abbandonare la Sicilia prima dei 18 anni, perché dopo quell’età, secondo lui, si forma la crosta della sicilitudine. Per me, essendo andato via a 27 anni, il danno era già fatto, altro che crosta! Quindi credo che tutto quello che sono riuscito a fare dopo ha sempre avuto l’influenza di questa crosta».

Giuseppe Tornatore la sera vuole vedersi un film: cosa fa? Apre una piattaforma digitale? Va al cinema?
«Quando voglio vedere un film o vado al cinema o me lo proietto nella saletta di proiezione che ho in ufficio o nel mio salone a casa, dove ho un proiettore digitale con schermo relativamente grande. Raramente mi rivolgo a una piattaforma, solo quando cerco un film specifico che so di poter trovare lì. E anche in quel caso lo vedo in proiezione, mai sul televisore».

Geoffrey Rush nel film "La migliore offerta" (Foto: Pesaro Film Festival)

Dopo il crollo dovuto al Covid si registrano dati in crescita per il cinema in Italia nel primo trimestre del 2023, rispetto al 2022 (+50% nelle presenze). Ma resta ancora un gap non da poco con il periodo pre-Covid (incassi a -38% rispetto al 2019). Lei, autore di un film come Nuovo Cinema Paradiso, che è anche un atto d’amore al cinema in sala, cosa pensa? La sala resisterà?
«Non esiste l’ipotesi contraria: la sala rimarrà sempre, solo che le modalità di fruizione dei film diventeranno sempre più ampie. Le varie modalità con cui oggi possiamo vedere un film non sono certo l’approdo di un percorso tecnologico che si conclude. Lo dico sempre: ne vedremo delle belle. Ci saranno ancora nuovi sistemi. Ma la sala resterà sempre perché, al di là di ogni retorica e nostalgia, l’esperienza del vedere un film su un grande schermo, con una proiezione bellissima, un suono perfetto, poltrone comode, in una sala dove ci sono persone che non conosci, resta un’esperienza spirituale, culturale e umana che non si può ripetere in nessun altro dei vari metodi di fruizione. Per questo la sala non sparirà mai. Certo, per convivere con queste nuove modalità che si moltiplicano la sala dovrà essere all’avanguardia dal punto di vista del comfort e della tecnologia. Se riuscirà a mantenere questa linea di modernità non sparirà mai».

Il cinema italiano, più di quello hollywoodiano, sembra in affanno. Nella top ten degli incassi del 2023 al momento c’è solo un film nostrano ed è Me contro Te - Il film: Missione giungla degli youtuber che piacciono ai ragazzini. Cosa ne pensa?
«Non sono così sicuro che il cinema italiano sia più in affanno di quello hollywoodiano perché, al netto dei blockbuster, che adesso sono solo i film americani dai grandi incassi, non mi pare che la situazione hollywoodiana sia molto più florida di quella europea. Anzi, negli ultimi anni il cinema italiano sta dimostrando, nonostante le grandi difficoltà che conosciamo, una vitalità incredibile. Agli ultimi David di Donatello faticavo a decidere per chi votare, c’erano cinquine meravigliose, e anche l’anno scorso, e questo è successo più volte. Ci sono registi nuovi, c’è anche un tentativo - secondo me felice - di alzare l’asticella della qualità. Lo dimostra l’affermazione de La Stranezza di Roberto Andò, un film che 6-8 anni fa non sarebbe stato fatto – né glielo avrebbero fatto fare -: oggi non solo è riuscito a realizzarlo ma ha avuto anche successo, pur se è un film su un tema difficile, fatto però in modo da essere percepito da un pubblico più basso. E il pubblico l’ha premiato. Quindi c’è un bel movimento. Certo, non siamo più nell’epoca in cui producevamo 300 film all’anno e tutti e 300 uscivano al cinema e due terzi di questi facevano un sacco di soldi, perché il pubblico ora vede i film anche in un altro modo. Continuare a misurare la salute del cinema italiano solo dagli incassi al botteghino della sala cinematografica è un po’ fuorviante. Bisognerebbe sommare anche quanti spettatori vedono i film in piattaforma, quanti con l’home theatre, quanti con l’home video... È da misurare su un lasso di tempo più ampio delle due settimanelle o del weekend striminzito che qualche volta si dà a un film in un cinema, talvolta commettendo grandi errori perché ci sono film che hanno bisogno di stare in sala più a lungo per intercettare la fascia di pubblico ideale».

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Simona Santoni

Giornalista marchigiana, da oltre un decennio a Milano, dal 2005 collaboro per Panorama.it, oltre che per altri siti di testate Mondadori. Appassionata di cinema, il mio ordine del giorno sono recensioni, trailer, anteprime e festival cinematografici.

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