Quando i medici non si lavavano le mani
(Mondadori via Getty Images)
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Quando i medici non si lavavano le mani

Il libro "Il morbo dei dottori" racconta la storia di Ignác Semmelweis, il primo a imporre le regola dell'igiene negli ospedali. Ma nessuno lo ascoltò…

Avere ragione può essere una delle esperienze più frustranti della vita. La verità è lì, illuminata dai fatti, ma gli altri non la vedono. Avere ragione può far perdere la ragione. E Ignác Semmelweis, giovane dottore ungherese vissuto due secoli fa, era così disperatamente nel giusto, e così fiero e ostinato nel suo tentativo di farlo capire, che alla fine ne impazzì. Deriso e screditato da tutti gli altri scienziati della sua epoca, morì in un manicomio di Vienna a 47 anni.


Che cosa diceva Semmelweis di scandaloso e inaccettabile ai suoi colleghi? Una cosa molto semplice: lavatevi le mani. Perché altrimenti portate al letto dei malati, e sui loro corpi, microbi che li uccidono in modi spaventosi. Quel gesto che oggi facciamo innumerevoli volte al giorno, incitati da altrettanti innumerevoli esperti, un tempo era considerato assurdo e oltraggioso dagli stessi medici. La storia di Semmelweis, illuminante e struggente, è raccontata nel libro dello scrittore e chirurgo americano Sherwin B.Nuland Il morbo dei dottori (Codice, prima edizione del 2014, rieditato in tempi di pandemia). La medicina ne esce male: negligenza, arroganza e impunità riempiono il cimitero dietro l'ospedale (e chissà quanti altri). La medicina ne esce bene: come sempre avviene nella scienza, razionalità e risultati finiscono per imporsi, anche se dopo, anche se tardi.

Nel 1847, Semmelweis, 28 anni, fece il suo ingresso come assistente nel principale ospedale di Vienna, l'Allgemeines Krankenhaus. Un labirinto di edifici separati e cortili interni dove i malati venivano (malamente, viste del conoscenze dell'epoca) curati, le donne andavano a partorire. Ma nella prima divisione di Ostetricia succedevano cose terribili, anche se comuni a molti altri ospedali europei: le neomadri, dopo il parto, morivano di febbre puerperale nel giro di 24-48 ore. Nella prima divisione del nosocomio viennese, il ritmo di questa strage era una donna ogni sei. E non era una bella morte. «Erano così tanti i casi di malattia in corsia e sui tavoli dell'obitorio» scrive Nuland «che i medici venivano a studiarli da varie parti d'Europa».

Quale fosse l'origine di quell'orribile infezione dell'utero, era un mistero. Colpa, si pensava, di una sorta di «atmosfera nociva» che circondava le pazienti: una fogna vicina, il caldo eccessivo, influenze cosmotelluriche (ipotesi davvero tirata in ballo da alcuni).Il giovane Semmelweis, pur agli inizi della carriera, non era affatto convinto di quelle improbabili spiegazioni. E non tardò a notare un'anomalia: se la prima divisione di Ostetricia era l'anticamera della morte (11 per cento di letalità), nella seconda il destino era assai più benevolo (intorno all'1 per cento). Eppure, nella seconda divisione a far partorire le donne erano semplici ostetriche, nella prima giravano illustri medici.Medici che, poco prima, avevano praticato una serie di autopsie su cadaveri. E, senza disinfettarsi (concetto allora pressocché sconosciuto) mettevano le mani pieni di germi nell'utero delle future madri. Eccolo, il veicolo del contagio mortale.Trascuratezza, superficialità, ignoranza delle norme di protezione, errori prolungati e resistenza a correggersi. Ricorda nulla? Inorridito da quanto vedeva in corsia, Semmelweis ne fece una furiosa crociata personale. «Si convinse che un modo per porre fine alla carneficina andava trovato, e che sarebbe stato lui a trovarlo» racconta Nuland. L'igiene dei medici non fu, però, un'intuizione improvvisa e geniale. Semmelweis passò le notti a leggere libri e riviste, a bilanciare teorie opposte, a confrontare dati e statistiche, a studiare le sue pazienti, quelle vive e quelle morte. Alle fine, capì. Gli fu chiaro che, come scrisse lui stesso, «la febbre puerpuerale si originava da particelle di un cavadere putrido.... e la fonte di trasmissione era sulle mani degli studenti e dei medici curanti». A metà maggio di quello stesso anno, il 1847, ordinò che una scodella di cloro liquido fosse posta all'ingresso della prima divisione, e insistette perché tutto il personale sanitario si lavasse le mani (comprese le unghie, con una spazzola) prima di toccare una donna in travaglio.Entro inizio giugno, era chiaro che qualcosa stava cambiando: nella famigerata prima divisione, la mortalità era scesa al 3 per cento. L'anno successivo altro calo, fino all'1,2 per cento. Come si poteva dunque negare la validità di quelle scelte? Si poteva eccome. I vertici del reparto si convinsero che era merito di un nuovo metodo di ventilazione, per esempio. In generale, era difficile ammettere il fatto che fossero stati proprio loro, i medici, i responsabili di così tanti morti di donne giovani e sane. La rimozione delle proprie colpe era, ed è, un freno a mano potentissimo.

Semmelwes, va detto, ci mise del suo: prepotente e collerico, faceva scenate terribili a chi non osservava il suo protocollo, tanto che molti ne sabotavano gli sforzi, non lavandosi le mani o non pulendo le lenzuola delle donne infette, che così passavano il contagio ad altre.Alla fine, l'ombroso medico ungherese fu rimosso dal suo incarico. Avrebbe potuto pubblicare i suoi studi, dimostrando, con solide argomentazioni, l'importanza della sua teoria sul contagio. Ma si rifiutava di farlo, chissà perché. E quando, anni dopo, e su insistenza di amici e sostenitori (qualcuno lo aveva), si decise, produsse un testo così complesso, involuto e disordinato da risultare quasi illeggibile.

La febbre puerperale, intanto, nell'ospedale viennese aveva ricominciato a salire. Semmelweis si sentiva sempre sempre più sconfortato e impotente contro il destino e la micidiale resistenza degli altri scienziati, che ne rigettavano le conclusioni con totale disprezzo. «Alla fine del 1862» racconta il libro «divenne impossibile ignorare il suo comportamento sempre più stravagante. Era lunatico, irritabile, pomposo e smerorato. Spesso insonne, errava per le strade, parlava da solo o con persone immaginarie».

Povero Semmelweis. Tre anni più tardi, un suo intervento pubblico durante una conferenza fu così sconclusionato che i colleghi lo riportarono a casa badando che fosse messo a letto. La moglie si arrese al fatto che Semmelweis avesse perso la ragione. Con uno stratagemma (gli fecero credeva che stava andando alle terme) lo condussero in un ricovero statale per malati mentali vicino a Vienna, e lì lo lasciarono. Morì due settimane più tardi, il 13 agosto 1865. Aveva perso, in vita, la sua battaglia solitaria contro l'establisment medico, battaglia, va detto, che lui stesso aveva giocato male pur avendo ottime carte. La vinse postuma, come spesso avviene. Alla fine, non fu più possibile negare la validità delle sue intuizioni. Nel 1891 l'Università di Budapest nominò un comitato commerativo per Semmelweiss, che fu riconosciuto come un eroe nazionale. Seguirono sontuosa lapide, celebrazioni internazionali nel 1906, persino una statua a Vienna. Oggi Semmelweiss sarebbe forse uno dei consulenti di qualche comitato tecnico-scientifico Covid-19, e incazzoso com'era, avrebbe dato un notevole contributo alle infinite polemiche che stanno movimentando questo già turbolento periodo. In cui certezze e fake news sono, alla fine, quasi indistinguibili: plasma sì, plasma no, usiamo gli antimalarici anzi fanno male, il virus è stato fabbricato in laboratorio.

«Non dobbiamo stupirci, anche nella scienza la forza di pregiudizi e opinioni sbagliate è potente» riflette Paolo Mazzarello, storico della medicina (e autore del libro E si salvò anche la madre, Bollati Boringhieri). «Soprattutto quando le novità mettono in discussione potere, prestigio, posizioni acquisite».

Nel 2020, la lezione di Semmelweiss non è poi così remota. «Certo che no. Pensiamo all'omeopatia, che ancora oggi ha radici profonde benché non sia supportata da alcun elemento scientifico» continua Mazzarello. «O al movimento no vax, che vorrebbe un mondo senza vaccinazioni. Com'è possibile che tra le loro fila ci siano medici che hanno studiato immunologia, e sanno che malattie come la poliomelite o il vaiolo hanno falcidiato l'umanità? È la prova che intelligenza e ragione non sempre viaggiano insieme. E quando le convinzioni radicate diventano sistemi di interpretazione del mondo, rinunciare alle proprie idee diventa impossibile».

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Daniela Mattalia