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La guerra del peperoncino

La guerra del peperoncino

La pandemia ha cambiato i consumi a tavola, e ora la richiesta dell’alimento si è moltiplicata. Peccato che il prodotto cinese, meno pregiato e meno sicuro, ma venduto a un costo quattro volte inferiore, abbia ormai soppiantato quello nazionale.


Siamo tutti un po’ Ferdinando Mericoni: «Maccarone m’hai provocato? E io te distruggo, me te magno». I tempi però cambiano e invece di essere un Americano a Roma oggi Alberto Sordi potrebbe essere un cinese a tavola: un piatto di spaghetti aglio, olio e peperoncino potrebbe non avere nulla d’italiano. È l’effetto virus cinese: in tutti i sensi.

Per via della pandemia abbiamo cambiato i nostri consumi: mangiamo più pasta perché stiamo in casa, mangiamo più peperoncini convinti che tengano lontano il virus e lo stesso vale per l’aglio. Così il nostro piatto di spaghetti non solo è appetitoso ma ha un retrogusto antivirale.

Tant’è che sul sito del ministero della Salute c’è un’avvertenza per difendersi dalle bufale in rete. Testuale: «I peperoncini piccanti nel cibo, anche se molto saporiti, non possono prevenire o curare Covid-19. L’aglio è un alimento con alcune proprietà antimicrobiche, ma non ci sono evidenze di azione preventiva nei confronti del nuovo coronavirus». Magari tiene lontano i vampiri, ma fermiamoci lì.

Però c’è un altro virus cinese che attacca stavolta l’economia e segnatamente peperoncino e aglio. È scoppiata una guerra piccante denunciata dalla Cia – Confederazione italiana agricoltori – che sostiene come anche a causa dell’incremento di domanda il peperoncino cinese abbia scacciato dalle tavole e dai supermercati quello italiano. La faccenda non è di poco conto perché per molti agricoltori, soprattutto del Sud, e per molti trasformatori il peperoncino è «oro rosso».

Si apre un nuovo, grave fronte di mancata tutela dei prodotti nostrani e il neoministro pentastellato dell’Agricoltura Stefano Patuanelli avrà di che battagliare a Bruxelles con il commissario agricolo Janusz Wojciechowski visto che la dieta mediterranea è sotto attacco sia con la famigerata etichetta Nutriscore che con il piano anticancro europeo; il peperoncino di certo è uno degli emblemi del nostro regime alimentare ma scarsamente tutelato dal dumping estero. In Italia s’importano più di 2.000 tonnellate di «diavolicchi» perché la produzione nazionale, di ottima qualità, non soddisfa minimamente la domanda.

Copriamo non più del 20% del fabbisogno con una produzione che non supera le 400 tonnellate, divisa tra Calabria (che da sola realizza il 25% del peperoncino italiano), Basilicata, Campania, Lazio e Abruzzo. Tra importazioni e produzione locale si tratta di circa una quindicina di milioni di euro.

Come dice il presidente dell’Accademia del Peperoncino – che ha sede a Diamante, ovviamente in Calabria – Enzo Monaco: «La nostra qualità è altissima, ma la produzione di fatto non esiste». E ora è schiacciata dalla concorrenza cinese. Dall’Oriente importiamo circa l’80% del nostro fabbisogno (il resto arriva da Turchia ed Egitto) solo che è merce di scarsa qualità. Il prezzo però fa la differenza. L’allarme della Confederazione degli agricoltori si concentra su questi due aspetti: il prodotto cinese arriva a tre euro contro i 15 del costo medio di quello italiano, ma mentre quello italiano è controllato e selezionato quello orientale contiene di tutto.

Spiegano alla Cia: «Se in Italia, da 10 chilogrammi di peperoncino fresco si ottiene un chilo di prodotto essiccato, macinato in polvere pura al 100% e commerciabile a 15 euro, l’analogo prodotto dalla Cina ha un costo di soli tre euro, ed è il risultato di tecniche di raccolta e trasformazione molto grossolane: la piantina viene interamente triturata – compresi picciolo, foglie, radici – con requisiti fitosanitari ben diversi da quelli conformi ai regolamenti europei.

La polvere stessa è per sua natura facilmente sofisticabile e anche quando il peperoncino arriva fresco o semi-lavorato da Turchia o Egitto, la qualità è compromessa dai molti conservanti. Il peperoncino italiano, fresco o lavorato, ha prezzi molto più alti perché raccolto a mano e la trasformazione avviene con tecniche d’avanguardia compresi macchinari per l’ozono per una perfetta essiccazione».

L’aumento di domanda causa Covid ha favorito i cinesi che hanno espulso dalla distribuzione i nostri «cornetti».
Ma pure il resto del nostro piatto di spaghetti è sotto attacco. L’aglio cinese sta facendo dumping sui nostri pregiatissimi (dall’aglio rosso di Sulmona al Dop di Voghiera all’aglione della val di Chiana, un prodotto unico al mondo). Ora la Cina ha bloccato l’export perché è salita la sua domanda interna causa Covid, ma comunque ha sconvolto il mercato. I due Paesi che vendono di più al mondo dopo i cinesi – di gran lunga i primi produttori anche se sulla qualità esistono molti dubbi – ossia Argentina e Spagna, stanno speculando.

Anche l’aglio dimostra come l’Italia sia fortemente deficitaria per alcune produzioni. E con gli spagnoli ha ingaggiata una battaglia durissima sull’olio extravergine di oliva. Come confida Leonardo Frescobaldi (la prestigiosa casa vinicola ha una linea di produzione di oli toscani eccellenti): «Non possiamo sacrificare la biodiversità e la qualità italiana per rincorrere sul prezzo gli spagnoli, ma d’altro canto bisogna proteggere l’olio italiano, ci sono troppe importazioni discutibili». Basta dare un’occhiata ai prezzi per scoprire che sono crollati perché c’è un sistematico dumping praticato da chi miscela oli di svariate provenienze – dalla Tunisia al Marocco passando quando va bene per la Grecia – e poi li vende nei supermercati a prezzi stracciatissimi.

Analogo discorso per la pasta. Dino Martelli, artigiano di Lari che s’avvia a festeggiare i cent’anni del suo pastificio dice: «Ormai la differenza tra pasta artigianale e industriale è percepita dal consumatore, ma gli va spiegato che i nostri prezzi non sono comparabili perché noi trasformiamo solo grano locale biologico e i tempi di lavorazione sono assai più lunghi. Io gli spaghetti li faccio asciugare quasi tre giorni, mentre le industrie quattro ore». Risultato: lui vende a 5 euro al chilo, gli altri a meno di uno.

Anche qui il fronte caldo è l’import; i grani arrivano da ovunque perché la nostra cerealicoltura è stata distrutta: abbiamo perso 8.000 aziende e alcune migliaia di ettari. Siamo leader nel mondo nella produzione di pasta (3 milioni di tonnellate, il 60% spedite all’estero, 26 chili pro capite quella che mangiamo ogni anno con un incremento causa pandemia del 3%), ma importiamo quasi il 40% del grano duro che ci serve.

Come dire che ci sono enormi potenzialità di sviluppo in agricoltura, ma che la difesa del made in Italy deve partire dai campi. Altrimenti quel piatto di spaghetti aglio, olio e peperoncino rischia di essere un indigesto cinese a tavola.

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