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Il pesto e i suoi discepoli

Il pesto e i suoi discepoli

E’ la seconda salsa al mondo dopo quella di pomodoro, ha una ricetta semplice ma imitarlo è difficilissimo. Ecco come i grandi chef lo «reinterpretano», secondo tradizione, nei loro menu stellati.


Sulle caravelle di Colombo non c’era, se non nell’immaginazione geniale di Altan, che allo scopritore del Nuovo Mondo dedicò un volume a fumetti. Non c’era perché il pesto non è così antico, diversamente il genovese Cristoforo Colombo, pur navigando per la corona spagnola, non avrebbe rinunciato a imbarcare basilico, pestello e mortaio. Il pesto compare, per la prima volta, in un ricettario di Giovanni Battista Ratto, pubblicato nel 1870. Faceva capolino tra le salse, umile, un capriccio verde brillante in mezzo a buridde di stoccafisso, ravioli con le erbe, cappon magro, torte di riso, farinate e persino il metodo infallibile per preparare il rosolio. Nessuno ne avrebbe immaginato il grande futuro. Visto il successo attuale – è la seconda salsa al mondo, dopo quella di pomodoro, per condire la pasta – si auspica che sulle origini del pesto vengano fatte ricerche, si scriva almeno un libro documentato. Speriamo non si lasci ulteriore spazio a chi ne usurpa la fama, magari attribuendosene la paternità. Per l’americano medio la pizza è stata inventata negli Stati Uniti, non potrebbe essere a stelle e strisce pure il pesto? Peraltro pessimamente imitato nel mondo, come altri nostri prodotti. È il fenomeno deleterio dell’italian sounding: nomi evocativi del Belpaese utilizzati per vendere mozzarelle di bufala campana prodotte in Brasile o parmigiano che viene dall’Illinois. Ma c’è un guerriero che difende la reputazione del vero pesto e lo porta, da ambasciatore, in tutto il pianeta: Roberto Panizza, figlio della Superba al pari di una foglia di basilico raccolta a Prà. È imprenditore (con la trattoria Il Genovese, notissima nel capoluogo ligure), ha fondato e organizza il Campionato mondiale di Pesto al mortaio. La finalissima della decima edizione, dopo competizioni svolte in molte città anche straniere, si tiene il 23 marzo al Palazzo Ducale di Genova, con cento partecipanti dal mondo.

«Il mortaio in marmo di Carrara, di cui sono aumentate le vendite negli ultimi anni, e il pestello in legno di pero sono un marchio ligure», dice Panizza. «Con questi strumenti nasce il pesto. Che io chiamo invisibile, quando è prodotto con la fatica, pestando foglie di basilico Dop, sale, aglio di Vessalico, pinoli italiani. E aggiungendo Parmigiano Reggiano, pecorino sardo, olio extravergine ligure. Invisibile perché la produzione è per forza ridotta. Io lo vendo online, su prenotazione. Ma non ignoro che se il pesto è diffuso il merito va all’industria. E non mi scandalizzo se nei ristoranti e a casa il mortaio lascia il posto al frullatore». Panizza gira il mondo, nel nome del pesto. Nel novembre scorso è stato a Londra, con il presidente della Regione Liguria, Giovanni Toti. Hanno portato sul Tamigi, alla più importante fiera del turismo, un gigantesco mortaio. Prima tappa di un tour promozionale che sta dando ottimi risultati.

«Difendo la ricetta tradizionale» argomenta Panizza, «ma il pesto è versatile, sa adattarsi alle diverse culture. In Nuova Zelanda viene usato come salsa da spargere sull’agnello arrostito, in Sudafrica volevano servirmelo in un panino. Ed è ormai cosa normale, in Italia, trovarlo sulle pizze. Segno di vitalità. Importante è che sia fatto bene, con ingredienti di prima classe. A partire dal basilico genovese Dop, con le foglie piccole, che non è solo quello rinomato di Prà. A Prà hanno messo a punto un sistema di coltivazione eccellente, ma in tutta la Liguria si trova di qualità certificata. Al mondo ci sono oltre 60 tipi di basilico, ma solo con il nostro si produce il pesto genovese autentico. Ecco, il mio sogno, e di chi ha a cuore la cucina del capoluogo ligure, è che l’arte di fare il pesto abbia un riconoscimento come patrimonio immateriale dell’umanità. Ma la strada è ancora lunga». Nel frattempo, sua Maestà il pesto fa proseliti nelle cucine blasonate, non soltanto nella miriade di trattorie che punteggiano la costa e l’entroterra ligure, e nei luoghi di massa dove si serve cibo: con pizza e cotoletta costituisce il tridente della cucina nazionale.

Non c’è chef stellato che non lo apprezzi, anche se non lo mette in carta, o lo inserisce raramente. Nomi altisonanti quali Enrico Bartolini, Massimo Bottura , Claudio Sadler, Andrea Berton, Carlo Cracco, Alessandro Borghese – andate avanti con la lista – ogni tanto lo praticano, come citazione della cucina mediterranea, salsa che trasmette sapori e profumi di un mondo fortemente evocativo. In Liguria, regione molto cresciuta nell’offerta gastronomica, tanto da avere oggi ben 13 stellati (la guida Michelin resta una valida indicazione per il buongustaio), il pesto è un culto da officiare. Per ogni chef è punto di partenza e sfida: è stimolante inserirlo nel menu con pochi ma significativi tocchi creativi.

Samuele Di Murro, chef del ristorante San Giorgio di Genova (una meritatissima stella Michelin), lo utilizza come farcitura. Dice: «L’intuizione è del patron, Danilo Scala. Metto il pesto, che per me è sangue, dentro gli gnocchi di patate. Sette perfette sfere che esplodono appena morse in bocca, versandolo. Le servo su una crema di pinoli. Un piatto in apparenza semplice, ma complesso». Simone Perata, chef dello storico ristorante A Spurcacciun-a di Savona, meta fine dining gestita con lungimiranza da Pervinca Tiranini, lo inserisce nei tortelli. «Lo introduco in carta a primavera» dice Perata. «Servo i tortelli su una base di tartare di calamari, impreziosita da pomodoro candito e zeste di limone. Accompagno con brodo chiarificato di alette dei calamari». Giorgio Servetto, talentuoso chef ligure con due stelle Michelin, nel suo Vignamare ad Andora, provincia di Savona, lo propone come amuse-bouche. «È il mio benvenuto vegetale. Alla base c’è una dadolata di patate quarantine sbianchite, assieme a fagiolini e a una punta di peperoncino. Poi pesto con basilico di Prà e spuma di patate. Si mangia affondando il cucchiaio. Il mio pesto è di grana più grossa: non mi piace troppo fine».

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