Pupi Avati: «Il mio Dante è stato Fellini». Sulla crisi del cinema: «Si torni all'ambizione»
Pupi Avati (Foto Ansa/Ettore Ferrari)
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Pupi Avati: «Il mio Dante è stato Fellini». Sulla crisi del cinema: «Si torni all'ambizione»

Intervista al regista infaticabile che corona il sogno di raccontare il suo Dante Alighieri, umano e «quanto più vicino a noi». Se il sommo poeta vivesse ai giorni nostri? «Sarebbe un alternativo. Senza un partito alle spalle e pieno di debiti»

«Un film necessario». Così Pupi Avati definisce il suo Dante, il film sul sommo poeta. Un racconto cinematografico sul Vate per eccellenza come raramente si è osato. Dal 29 settembre al cinema, ci mostra un giovane Dante Alighieri, interpretato da Alessandro Sperduti, con occhi estasiati d’amore per la soave Beatrice (Carlotta Gamba), e quindi amico di Guido Cavalcanti (Romano Reggiani), e poi in guerra, tra bisogni fisici di ogni natura, intento a defecare lato torrente e a cercare le voluttà del sesso. Un Dante umano.
Sulle sue tracce, a distanza di circa trent’anni dalla sua morte, da Firenze a Ravenna si muove Giovanni Boccaccio, un Sergio Castellitto intenso che ci fa sentire tutto il sincero e immenso amore per Dante poeta, ispiratore e maestro. Boccaccio nel settembre del 1350 fu incaricato di portare dieci fiorini d’oro come risarcimento simbolico a suor Beatrice (Valeria D'Obici), figlia di Dante Alighieri, monaca nel monastero di Santo Stefano degli Ulivi. Un risarcimento che Firenze pagò per le umiliazioni e miserie inflitte a Dante, la confisca dei beni e la condanna ad essere arso vivo e decapitato.
Dante è morto in esilio nel 1321 mentre la sua fama, grazie alla divulgazione della Divina Commedia, si diffondeva ovunque. Gli ultimi suoi vent’anni furono di continua fuga e povertà, cercando ospitalità presso le varie corti.

Pupi Avati, 84 anni il 3 novembre, instancabile narratore, ha coronato un desiderio che rincorreva da decenni. È entusiasta di raccontarci tutto il suo amore per Dante, come il Boccaccio emozionato e commosso del film.

Come mai un film su Dante oggi, sulla scia dei 700 anni dalla morte celebrati nel 2021?
«L'anniversario di Dante è tutti i giorni della nostra vita. È un film necessario perché Dante è probabilmente l'italiano più illustre e più conosciuto in tutto il mondo al quale non è stato mai dedicato né un film né una fiction, nulla. È da più di 22 anni che mi occupo di dantistica e che imploro i committenti di mettermi nella condizione di raccontare la sua vita. E finalmente ce l’ho fatta. È evidente che la concomitanza con i 700 anni dalla morte in qualche modo abbia agevolato la cosa, ma questo film bisognava farlo vent'anni fa».

Che difficoltà ha trovato a girare un film su Dante in circa 20 anni di tentativi?
«C'è un pregiudizio. Molti vedono Dante Alighieri con un senso di insofferenza perché lo hanno in qualche modo subìto con un senso di inadeguatezza durante gli anni scolastici. È stato imposto in un'età in cui si è ancora troppo giovani per apprezzare e capire quel livello, quello stato di sublime poesia così elevata proposta da Dante. Nella mia scuola - non so se è così anche ora - non è mai stata approfondita la vita di Dante attraverso quel suo diario straordinario che è la Vita Nova. Si è passati direttamente alla sua opera senza raccontare l'essere umano. Io ho sentito la necessità di raccontare l'essere umano e soprattutto questa straordinaria storia d'amore, la prima grande storia d'amore della letteratura mondiale, molto prima di quella di Giulietta e Romeo e di tutte le storie d'amore che conosciamo. Quella di Dante e Beatrice è l'archetipo di tutte le storie d'amore».

Sergio Castellitto e Pupi Avati sul set del film "Dante" (Foto: 01 Distribution)

Anche lei a scuola ha odiato Dante?
«Non poco! Anche per il suo aspetto: l'iconografia dantesca è un'iconografia fortemente punitiva, raramente si è visto un profilo più brutto di quello di Dante. Ha contribuito poi il sapere che era un uomo supponente, distaccato, convinto della sua onniscienza, di carattere molto difficile: una serie di elementi che è totalmente contraddetta dalla Vita Nova, questo diario che Dante redige all'indomani della morte di Beatrice. C'è un ragazzo di una tenerezza e di una sensibilità estreme, di un'umanità profondissima. Come si fa a vedere questo film e non amare Dante come lo amò Boccaccio?».

E come lo ama lei?
«Come lo amo io, sì, come amo tutti quelli che danno gioia attraverso l’arte, nel caso di Dante attraverso la poesia che è la forma di espressione più elevata e più pura, meno contaminata, perché il poeta vive della sua urgenza di scrivere poesie, di proporre sensazioni ed emozioni. I poeti non si arricchiscono, non vanno sulle copertine dei tabloid o ai talk show. Il poeta è una persona di una purezza completamente avulsa dal mercato».

Se Dante vivesse nell’epoca odierna sarebbe ugualmente uno squattrinato in povertà?
«Oggi Dante sarebbe pieno di debiti e con un sacco di problemi, senza l’appoggio ideologico alle spalle di un grande partito. Sarebbe veramente un alternativo».

Nel suo film non vediamo quasi mai Dante scrivere. Come mai?
«Perché mi sembrava fosse l'unica cosa che non serviva dire di Dante. Ho cercato di raccontare un Dante quanto più vicino a noi come essere umano. Lo vediamo addirittura fare i suoi bisogni, nella sua quotidianità, nelle sue problematiche, per cui ci può essere identificazione. È come lo ha raccontato Boccaccio, un Dante addirittura lussurioso, un Dante che ha rapporti sessuali. Alla fine del film sicuramente si saprà molto di più su Dante».

In una scena del film il Boccaccio di Castellitto dice alla figlia di Dante: “Considero suo padre come mio padre, il padre di tutte le gioie della mia vita”. È una frase di Avati o di Boccaccio?
«È una frase è mia, molte delle parole di Castellitto sono le mie, anche quando dice: “Io quando penso a suo padre lo so vedere solo ragazzo”. Perché anche per me è così. Io mi sono riavvicinato a quel ragazzo che era stato Dante e che ha continuato ad essere, perché la creatività appartiene a quella stagione della vita là, alla giovinezza».

Alessandro Sperduti nel film "Dante" (Foto: 01 Distribution)

Quanto è affascinato da questo credito reciproco e dal rapporto di amore e stima a distanza nel tempo tra Boccaccio e Dante? Boccaccio è stato uno dei primi dantisti, autore anche del Trattatello in laude di Dante, ed è stato lui ad attribuire l’aggettivo “Divina” al poema dantesco.
«All'inizio del film una voce fuori campo dice: "Se non ci fosse stata questa storia d'amore non ci sarebbe stata la possibilità di raccontare questa storia". Io se non avessi avuto Boccaccio come tramite, come una sorta di Virgilio che mi ha accompagnato nel mondo dantesco, non avrei mai avuto l'ardire di affrontare Dante Alighieri. E invece attraverso Boccaccio, attraverso l'amore di Boccaccio, l'ho fatto e sono contento di averlo fatto. C'è una cosa che le confido: al di là dei consulenti nell'elenco dei titoli di testa, dantisti molto prestigiosi, molti dantisti non li ho coinvolti, li temevo moltissimo perché il mondo dei dantisti è un mondo variegato, vastissimo, di persone che hanno dedicato tutta la loro vita agli studi danteschi, filologi, esegeti, persone veramente straordinarie, ma io li temevo. E ora stiamo ricevendo dalle università italiane e anche non italiane – tipo un'università della Florida e una del Lussemburgo - delle richieste perché il film venga proiettato nelle loro aule magne. Il fatto di aver ricevuto questa accoglienza così affettuosa e riconoscente da parte dei dantisti mi lusinga».

Se Dante non fosse stato esiliato e condannato a tanta sofferenza forse non avrebbe scritto la Commedia? Crede che il dolore promuova l’essere umano a una più alta conoscenza?
«Nella mia esperienza di vita e di cinema ormai di tanti anni, gli attori più sensibili, quelli che danno di più, che contribuiscono a far sì che il loro personaggio diventi incisivo, toccante e commovente, sono sempre le persone che hanno sofferto. E lo dico senza augurare a nessuno la sofferenza. Tuttavia è la più grande scuola di sensibilità. Quanto dolore ha vissuto Dante, bambino che a cinque anni già perde la madre e gli viene imposta una matrigna, poi conosce una bambina e la segue per nove anni prima che lei si giri e lo saluti, poi lei si sposa con un altro e muore e lui decide di dedicare tutta la sua vita a scrivere quello che non fu mai scritto per nessuna donna; e poi viene esiliato, condannato a morte al rogo, e quasi costretto a condannare all'esilio il suo migliore amico. È una vita faticosa, tremenda; nelle signorie Dante veniva accolto come un accattone».

Come Boccaccio ha avuto in Dante una sorta di padre che gli ha trasmesso l’amore per la poesia, lei ha avuto un Dante che le ha trasmesso l’amore per il cinema?
«Sì, si chiamava Federico Fellini. Io ho fatto per Fellini – anche se non aveva certamente bisogno di me - quello che Boccaccio ha fatto per Dante. In qualunque contesto io vada, e ormai sono decenni che parlo in pubblico, tutte le volte devo esprimere la mia riconoscenza nei confronti di Fellini. Se non avessi visto sicuramente ora io e lei non staremmo qui a parlare di cinema».

Nel suo film vediamo un Medioevo più che di cavalieri, castelli e dame pieno di scabbia, peste, miseria, crosticine e poca igiene. C’è un intento quanto più realistico che non fa sconti a un cinema più romanzato?
«Il Medioevo lo avevo già affrontato con Magnificat e conI cavalieri che fecero l'impresa. Per Magnificat vinsi i tre premi di medievistica più importanti in Italia, premi a livello accademico: il Jacques Le Goff, il Francovich e il Cecco d'Ascoli. Sono premi non cinematografici che si danno agli studiosi del Medioevo, non c'è altro regista che li abbia vinti. Ho una grande passione per il Medioevo. Tutto quello che si vede nel film deriva dagli affreschi coevi, del 1200 e del 1300, che ci hanno ispirato».

Dante esce in sala in un periodo in cui la crisi del cinema in Italia sta cominciando ad avere aspetti inquietanti. Gli incassi sono più che dimezzati rispetto al 2019. E non è più la paura del Covid a frenare, visto che i ristoranti sono pieni. Tra l’altro in Europa, l’Italia è quella più in picchiata libera. Come se lo spiega?
«I due anni di chiusura causa pandemia, di astinenza dal cinema, hanno creato una disabitudine a vedere i film in sala e un'abitudine invece a vedere l'offerta sempre più crescente dei film sulle piattaforme digitali. Avremmo dovuto applicare la legge francese, che tiene aperta una finestra temporale enorme tra l'uscita in sala del film e la sua programmazione in televisione. Infatti in Francia il cinema continua a funzionare. In Italia non funziona perché la gente confida sul fatto che tanto poche settimane dopo può vedere il film in televisione e sulle piattaforme. Ci sono film di Venezia già disponibili su Netflix».

Però per film americani come Top Gun 2, Minions 2 e i supereroistici della Marvel ci sono ancora pienone e lauti incassi.
«Perché non si vedono sulle piattaforme. E poi c'è la spettacolarità, che è un aspetto che dà solo il cinema. Un film come Dante - e le garantisco che per avere quelle immagini del Medioevo ci siamo impegnati tantissimo, con una ricerca approfondita - si apprezza sul grande schermo molto di più che sul televisore o addirittura su tablet o telefonino».

Sul fronte cinema italiano, le domande di tax credit per le opere cinematografiche sono quadruplicate fra il 2019 e il 2021, passando da 123 a 483. Tanti film italiani che probabilmente pochi vedranno?
«La tax credit ha facilitato e incoraggiato i produttori a fare i film nella quantità e non nella qualità. Le piattaforme sono voraci, ne consumano una quantità industriale: non si è lavorato mai così tanto come quest'anno o l’anno scorso. Se ora si cerca un direttore della fotografia, uno scenografo o un costumista, sono tutti occupati: lavorano tutti ma non lavorano per il cinema in sala, lavorano per serie tv o film destinati quasi immediatamente alle piattaforme».

Probabilmente si dovrebbe produrre meno ma meglio.
«Bisognerebbe tornare all'ambizione. Quando ho cominciato a fare cinema, nel remoto 1968, la prima cosa che ti dicevano i produttori era: “Vogliamo fare un bel film”. Questo dai committenti non lo sento più dire, sento dire: “Ma faremo ascolto? Ma verrà visto?”. Vale solo l'aspetto commerciale. E questo è molto avvilente».

Carlotta Gamba (al centro) nel film "Dante" (Foto: 01 Distribution)

Lei continua ad andare al cinema o è passato alle piattaforme digitali?
«Non frequento le piattaforme digitali. E purtroppo, e lo dico con un certo senso di colpa, avendo una certa età non vado neanche al cinema perché la sera sono stanchissimo».

Il suo Dante ha avuto anche uno spettatore speciale, il presidente Mattarella, alla presentazione del film all’Auditorium della Conciliazione di Roma.
«Non avrei mai immaginato che sarebbe venuto. Il fatto che abbia accettato l'invito e lo abbia esteso a Casellati e Fico mi ha molto lusingato. Alla fine, quando mi ha abbracciato, ho pianto. Il giorno dopo mi ha telefonato il suo portavoce Giovanni Grasso e mi ha detto: “Guardi che il presidente Mattarella non abbraccia mai nessuno”. L’abbraccio è stato una cosa molto toccante e importante: praticamente ho mostrato il mio lavoro al numero uno, a mio padre, perché a livello istituzionale il presidente della Repubblica è la figura più autorevole che ci possa essere. Abbracciandomi mi ha detto: “È un capolavoro”. E questo mi rimarrà dentro per sempre».

Woody Allen ha appena dichiarato che, dopo il film a cui sta lavorando, pensa al ritiro. Lei?
«Ho sempre detto che mi piacerebbe come Molière morire sul set».

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Simona Santoni

Giornalista marchigiana, da oltre un decennio a Milano, dal 2005 collaboro per Panorama.it, oltre che per altri siti di testate Mondadori. Appassionata di cinema, il mio ordine del giorno sono recensioni, trailer, anteprime e festival cinematografici.

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