Giorgia
Giorgia (Sony Music)
Musica

Giorgia: «Invecchiare non è un disonore»

Il rapporto con il padre severo (il suo più grande critico), le risate con Pino Daniele, la pressione sociale sulle donne, il blackout artistico e la rinascita sul set con Rocco Papaleo. Lagrande voce della musica si confessa e parla di Blu, l’ultimo album: «Mi sono rinnovata, senza snaturarmi»


Trasformarsi a cinquant’anni, cambiare pelle senza rinnegare sé stessi: è questa la sfida degli artisti della generazione di Giorgia. Continuare a giocare la partita oppure accomodarsi in panchina e guardare gli altri sul campo. «L’importante è non copiarsi da soli. Negli ultimi cinque anni» dice la cantante a Panorama «la musica italiana è diventata un’altra cosa, con l’esplosione del rap e della trap lo scenario sonoro è stato stravolto. Il mio nuovo disco, Blu, aveva come obiettivo quello di rendere la mia musica contemporanea, senza scadere nel giovanilismo a tutti i costi... Disco a parte, intorno alle donne c’è una pressione sociale molto forte dal punto di vista estetico» sottolinea. «Sembra che invecchiare sia un disonore. Qualche tempo fa ho visto in televisione un’intervista a Gigliola Cinquetti. Il mio primo pensiero, lo ammetto, è stato: ma guarda come è invecchiata. Poi, guardandola e ascoltandola ho intravisto una grande bellezza in quel viso. La verità è che non siamo più abituati a vedere i volti per quello che sono davvero. Anche io, quando faccio un servizio fotografico, scarto le immagini più “realistiche”, con la luce che non mi dona. È un riflesso condizionato. Detto ciò, ho scelto di rimanere quel che sono, ma non mi sento una virtuosa illuminata perché in realtà mi fa paura prendere anche un antinfiammatorio. Temo le controindicazioni di tutto, figurarsi di un intervento estetico».

Se il senso di Blu era il rinnovamento senza snaturare il suo stile, l’obiettivo è stato raggiunto con successo. Ma non senza fatica e dopo un periodo di smarrimento: «Ero del tutto disorientata, dopo il blackout del Covid mi si è spenta la creatività. E così, quando ho ricominciato a sedermi al pianoforte, mi sono accorta di navigare nel vuoto. Non sapevo più neanche come avrei dovuto cantare. Continuavo a chiedermi “e adesso io dove mi colloco?”. Ho cominciato a scrivere canzoni, ma poi buttavo tutto tra lacrime e momenti di isteria. Lo sblocco è arrivato grazie all’esperienza di attrice con Rocco Papaleo nel film Scordato. Ero la pivella del cast, Rocco mi ha allenata per mesi e rimessa in un flusso di creatività. E questo mi ha aiutato molto anche nella musica».

Giorgia può cantare tutto: le sue canzoni come quelle degli altri. Ha avuto successo anche la performance in cui ha messo in musica i dettagliatissimi divieti e consigli per gli addetti ai lavori che compaiono sugli schermi posizionati all’interno del Teatro Ariston di Sanremo (tipo, Il palco presenta dei dislivelli che comportano il rischio di inciampo e caduta. Essi sono evidenziati. Lo ha fatto con Elisa e la performance/gag improvvisata è ora un cult su YouTube). «Che duetto» ricorda lei, che su quel palcoscenico ha acceso la luce della sua carriera nel lontano 1994, e quest’anno è tornata in gara con Parole dette male.

«Un cameraman, durante la mia prima prova all’Ariston mi disse: “Tesoro mio, va bene che canti con gli occhi chiusi, ma ogni tanto la devi guardare la telecamera, questa è la tv...”. Quell’esordio fu un piccolo tentativo di suicidio artistico perché la canzone con cui mi sono presentata (si intitolava «E poi», ndr), inizia a cappella, nel silenzio assoluto della musica. Ma non mi sono resa conto di nulla, ero sofferente per amore, per un ragazzo che mi stava lasciando e, complice l’incoscienza della giovinezza, mi sono tuffata senza rete e senza capire che da quel giorno la mia vita sarebbe cambiata per sempre». C’è un’evidente citazione di Franco Battiato in Meccaniche celesti, il brano che apre il suo nuovo disco. «Ero in studio di registrazione il giorno in cui è arrivata la notizia della sua morte e quelle due parole si sono perfettamente incastrate nel testo che stavo scrivendo. Vengono da Segnali di vita, un suo pezzo che è da sempre nella playlist ideale della mia vita. Una canzone perfetta, bellissima e senza tempo».

Ci sono brani e brani, sosteneva Battiato: quelli che splendono di bellezza e contengono un messaggio universale sono ispirati da un’entità superiore e si «accomodano» nel repertorio di un artista, che a quel punto è soltanto un messaggero di note e parole illuminate. «È così. Certe canzoni rendono il cantante un tramite: arrivano da sole, naturalmente e misteriosamente, con il testo che casca in maniera perfetta sulla melodia» sottolinea. Ha un critico inflessibile in casa, Giorgia: suo padre, Giulio Todrani, che negli anni Novanta riunì alcuni dei migliori session man italiani in una band totalmente ispirata ai classici della black music, non a caso chiamata Io vorrei la pelle nera. «Prima di quella band ero la sua corista in un altro gruppo. Ogni sera c’era la pagella: “Non hai cantato male, ma quella nota la potevi tenere di più”. Avevo anche un mio gruppo, ma lo tenevo nascosto perché temevo il suo giudizio. Lui non usa giri di parole. Anche di recente non era d’accordo sul fatto che tornassi al Festival di Sanremo come cantante in gara. Ogni tanto si concede anche qualche complimento, ma me lo devo sudare. Questo suo approccio mi ha comunque reso più forte e mi ha preparata in anticipo al clima che si respira sui social» commenta.

A volte, le traiettorie della vita di tutti i giorni e dell’arte s’incrociano e da lì si dipanano nuove imprevedibili trame: «Pino Daniele l’ho incontrato casualmente dal commercialista. Da lì è nata un’amicizia piena d’amore, di stima e di risate. Con lui si rideva tantissimo. Mi sono trovata a 26 anni in studio con un “mostro sacro” della musica, ma soprattutto con un uomo speciale, che sapeva gustare ogni istante della vita. Anche quando proponeva di bere un caffè, quel caffè diventava un momento meraviglioso, unico. Insieme sembravamo Totò e Peppino alle prese con la famosa lettera. Quando gli veniva l’ispirazione mi chiedeva di prendere un foglio e di iniziare a scrivere freneticamente. Al momento della scelta del titolo del disco, non ebbe dubbi: “Chiamalo Mangio troppa cioccolata”. È quello che abbiamo fatto per tutto il tempo in studio!».

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Gianni Poglio