Il paese invisibile

Tempo fa mi sono trovato in provincia di Treviso, in auto, invitato in una cittadina in collina, e non trovavo il mio bivio. Allora, nonostante quel che si dice degli uomini al volante (d’altra parte ero da solo e non …Leggi tutto

Tempo fa mi sono trovato in provincia di Treviso, in auto, invitato in una cittadina in collina, e non trovavo il mio bivio. Allora, nonostante quel che si dice degli uomini al volante (d’altra parte ero da solo e non avevo nessuno da impressionare o di cui vergognarmi; e poi, alla mia età e di questi tempi, chi voglio impressionare?), ho accostato e ho chiesto informazioni a un locale, un uomo di una cinquantina d’anni appena sceso da un autotreno. Questi mi ha indicato il punto corretto in cui dovevo girare, in effetti non segnalato dalla cartellonistica; e per farlo ha preso, come punto di riferimento inequivocabile, il fast food di una nota catena, che sorge proprio su quella strada. Io ho ringraziato, ho individuato il punto in cui dovevo girare, ho imboccato la provinciale che non trovavo e sono giunto a destinazione.

Mentre guidavo, tuttavia, ripensavo a quell’indicazione: non perché ci fosse qualcosa di sbagliato o, come dire, di sacrilego nello scegliere quel punto di riferimento; ma perché dava l’esatta misura di quanto siano mutate le cose nella percezione e nella rappresentazione stessa del nostro territorio.

Il territorio, la terra, è – la cosa è nota – il cuore stesso di tutti i movimenti e i sentimenti “tradizionalisti”, fin dai tempi romantici o ancora prima, essendo per ovvi motivi il fondamento ultimo di ogni tradizione; quando intellettuali e politici conservatori parlano di radici, e di tutela delle stesse, intendono prima di ogni altra cosa il paesaggio, la storia visibile, la terra su cui hanno camminato e che hanno lavorato i nostri progenitori. Ed io, sia chiaro, mi sento vicino per certi versi e condivido le preoccupazioni di chi parla di tutelare il territorio: soprattutto perché esiste una continuità storica – non limitata al passato, ma proiettata nel futuro – e spezzarla configura sempre un arbitrio e una grave irresponsabilità, oltre che un atto di profonda, ingiustificabile arroganza.

Tuttavia rispettare la storia significa anche prendere atto che questa scorre; e che, scorrendo, essa muta i caratteri del nostro mondo. L’unico territorio, l’unico paesaggio umano e storico, e dunque le uniche radici che possono essere tutelate e difese sono quelle reali ed effettivamente esistenti. Qui sta la differenza fra giusta conservazione (giacché è giusto e doveroso conservare ciò che è bello e sano) e mera reazione; la seconda, paradossalmente, pur nelle sue pretese romantiche e tradizionaliste è assolutamente simile a quella modernità post-illuminista che ha voluto modellare il mondo, e i suoi abitanti, su certi principi – e non ha importanza che questi siano equi e luminosi, in teoria: entrambi piazzano il mondo in un letto di Procuste tutto ideale e lo modellano a proprio gusto. E i letti di Procuste, in potenza (ma anche in pratica; la storia ci ha abbondantemente documentato in proposito), non sono una bella cosa.

Il che non significa che non si possa voler bene al nostro passato, a quello che siamo stati: ci sono interi rami dello scibile e della scienza umana che si rivolgono a questo, ci sono i ricordi, c’è un’intera gamma di sentimenti, spesso dolci e consolatori… Ma quello rimane comunque il nostro passato.

Nel nostro territorio reale e ormai anche simbolico, quello cui pensiamo quando diamo un’indicazione, c’è invece ormai tanto di diverso da qualsiasi utopia romantica e da ogni rievocazione. E, certamente, ci sono anche delle ferite e delle imposizioni: ma sono sbreghi reali, da limitare e combattere nel mondo reale, non contrapponendovi mitologie posticce.

Io, d’altronde, ho trovato la strada e sono giunto alla conferenza; là, in mezzo a edifici vecchi e belli, ho parlato di storie e di passato, e non mi sono sentito inutile. Ma se sono arrivato è anche grazie a quel fast food posto su una strada trafficata. Segno che, finché esiste un’armonia, e finché gli esseri umani sono in grado di percepirla come propria, ogni cosa ha un suo ruolo.

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Tommaso Giancarli

Nato nel 1980, originario di Arcevia, nelle Marche, ho studiato Scienze  Politiche e Storia dell'Europa a Roma. Mi sono occupato di Adriatico e  Balcani nell'età moderna. Storia e scrittura costituiscono le mie  passioni e le mie costanti: sono autore di "Storie al margine. Il XVII  secolo tra l'Adriatico e i Balcani" (Roma, 2009). Attualmente sono di  passaggio in Romagna.

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