Il dilemma del Sultano
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Il dilemma del Sultano

Scrivevo tre anni fa, in questo stesso posto, delle proteste anti-Erdogan in Turchia, scoppiate all’epoca per un pretesto abbastanza marginale ma che avevano, evidentemente, un significato ben più ampio. E quello che dicevo era in fondo: attenzione. Attenzione a non prendere la giusta e condivisibile protesta del Parco Gezi come misura di tutte le opposizioni a Erdogan, perché non è solo in nome della libertà, del pluralismo, della laicità che vogliono farlo fuori; anzi, in massima parte, dando a ogni fazione della sfaccettata “opposizione” il proprio peso relativo, i motivi sono altri, e molto meno fulgidi e adottabili. Allo stesso modo, attenzione a non fare della formale e anche pratica investitura democratica di Erdogan una scusa per tutto; come se un mandato elettorale fosse un lasciapassare che dura anni per perseguire senza problemi ogni volontà, anche quelle più liquidatorie di ogni garanzia e ogni resistenza, anche potenziale.
La Turchia era all’epoca questo, lo è stata a lungo: un intreccio complesso di autoritarismo e democrazia, laicismo e islamismo; dove la democrazia, o per meglio dire il mandato democratico, serviva all’islamismo per giustificarsi e rafforzarsi contro il laicismo di stato, mentre l’autoritarismo era sia l’essenza del vecchio sistema, quello di cui il laicismo era la faccia esteriore, sia, sotto altre forme, il punto di arrivo del processo islamista-democratico… Una situazione che definire intricata è poco; e soprattutto un equilibrio fragile fra spinte evidentemente non conciliabili.
Ma forse è il momento di definire meglio questa stasi e di dare un nome e un motivo alle sue assurde facce.
Partiamo dal campo islamista e democratico. Erdogan è non da oggi un governante di tendenze autoritarie; e non da oggi si possono intravedere nelle file e nell’ideologia del suo partito, che è ufficialmente un movimento conservatore di ispirazione islamica, dunque una sorta di DC anni Cinquanta-Sessanta trasportata nella realtà turca, quei tratti islamisti rintracciabili in altri luoghi nei Fratelli Musulmani e in altre fazioni. Le quali, per esser chiari, hanno ovunque il chiaro obiettivo di costruire regimi basati sulla legge coranica, e non certo sulla democrazia, tantomeno quella di stampo “occidentale” (in questo senso la democrazia, anzi le urne, sono uno strumento che permette di arrivare a un regime che poi, per sua natura, deve smantellare tutta una serie di pilastri democratici; pur potendo, almeno in linea di principio, mantenere il ricorso alle urne). E tuttavia Erdogan ha costruito e allargato il proprio potere con la democrazia, intesa nel senso dell’appoggio convinto e ripetuto di parti notevoli e a volte maggioritarie dell’elettorato. Questo mandato popolare ampio e sentito è quello che gli ha consentito in un certo senso, paradossale ma vero, di fare della Turchia una democrazia parlamentare effettiva, dopo che per decenni la politica era stata svuotata di senso e ridotta a docile esecutrice degli ordini dei militari che erano di fatto i padroni del paese. Ossia, in altri termini: l’autoritarismo islamico cui probabilmente tende Erdogan è stato reso possibile dall’appoggio (consapevole?) degli elettori, che hanno demolito negli anni il quadro sostanzialmente autoritario ma laico della Turchia kemalista.
Dall’altra parte, quella appunto del kemalismo, c’era di fatto un’istituzione, più che un sistema, che permeava e controllava tutta l’organizzazione dello stato, e non esitava certo ad agire contro lo stato stesso, o perlomeno contro i suoi organi elettivi e rappresentativi, quando avvertiva che ci fosse una qualche deviazione dall’ortodossia: parlo, ovviamente, delle forze armate turche. Queste rispettavano e idolatravano la laicità e una certa europeizzazione, lascito kemalista per eccellenza; e d’altronde è inevitabile che fosse così, perché la fedeltà ad Ataturk era il motivo stesso della loro preminenza e ogni riforma avrebbe significato logicamente che la tutela dei militari non aveva più senso di esistere. Soprattutto, quando parliamo di laicità turca, dobbiamo ricordare che è una laicità fittizia, basata su un paese costruito chiamando “turchi” tutti i musulmani (di qualsiasi etnia, lingua, cultura) ed espellendo o massacrando chi musulmano non era. Era una laicità basata sulla negazione di un genocidio, fra le altre cose, e sull’impossibilità di dibattere e discutere di quello e di tanti altri argomenti; e una società che deve stare zitta e restare nei dogmi non è, mi pare innegabile, per nulla laica.
In questa situazione di immobilità forzata, l’islamico ed islamista Erdogan è stato il primo a riconoscere che esistono turchi di altre religioni e perfino di altre etnie rispetto alla dominante turanica. Strumentalmente, senza dubbio, ché doveva dimostrare la propria alterità e la propria democrazia; e però l’ha fatto.
In sostanza la sfida è stata a lungo fra una democrazia di comodo, che tendeva a un autoritarismo islamico, e una democrazia di facciata, che copriva un autoritarismo nazionalista.
Oggi questa situazione di enorme complessità, e di sostanziale pareggio fra pregi e difetti dei due (anche qui, semplificando: le fazioni sono ben più numerose) attori sulla piazza, sembra essersi sciolta. La Turchia, fallito il colpo di stato dei militari che avrebbero dovuto rimpiazzarlo evitando le urne - in cui il Sultano sembra imbattibile - pare avviata verso l'autoritarismo islamista di Erdogan. E in effetti non si capisce bene, ragionando un po’ sulla cosa, come il golpe sarebbe dovuto riuscire, su chi avrebbe dovuto appoggiarsi: se non potevano certo aspettarsi l’adesione dei milioni di conservatori rurali e non solo che hanno sempre votato Erdogan (e che, vista l’urbanizzazione rapida, sono sempre meno confinati nelle campagne da cui non avrebbero certo potuto contrastare il colpo di stato), chi avrebbe dovuto scendere in strada ad acclamare i militari, se non proprio ad affiancarli nelle battaglie di strada? I curdi, definiti per legge “turchi di montagna” dalla Repubblica laica, massacrati per decenni da quello stesso esercito e ancora oggi presi di mira da “operazioni di polizia” che fanno migliaia di morti? Le classi lavoratrici urbane, i cui movimenti progressisti sono stati soffocati nel sangue per tutto il secondo Novecento da quegli zelanti alleati della Nato (fino a quest’ultimo, anti-islamista, la storia dei colpi di stato turchi è in sostanza la storia di come la reazione utilizzi il proprio braccio militare per distruggere ogni timida svolta “socialista”, nel palazzo o nelle strade)? A occhio non rimaneva molta gente su cui contare; e infatti non si è presentato nessuno. I soldati di uno dei più temibili eserciti del mondo sono allora rimasti soli, impotenti, isolati dalla popolazione che avrebbero dovuto salvare dalla tirannide. E sono stati sconfitti, arrestati, a volte linciati, da militanti islamisti fanatici ma pressoché disarmati, che comunque erano più forti di loro, per il semplice fatto che non erano soli.
Erdogan, dunque, ha buon gioco nel plasmare adesso tutta la macchina statale a propria immagine: vengono rimossi non solo i militari - molti di più di quelli effettivamente coinvolti nel golpe, o perlomeno di quelli usciti dalle caserme -, ma anche i giudici, i professori e gli insegnanti, i rettori. Non c’è più, per motivi evidenti, nessuna resistenza: nulla resta sul cammino tra Erdogan e uno stato totalmente erdoganizzato.
E forse il problema, per chi ha superato vittoriosamente la sfida lanciata da un regime antico e brutale, che non è riuscito a fermarlo, inizia qui. Qui entra in gioco infatti quella che potremmo chiamare la variabile fascista, riferendoci non alla vaga definizione di fascismo vista in tutto il Novecento in varissime parti del mondo, ma alla precisa realtà del regime mussoliniano in Italia: quel regime che prese una media potenza dopo una guerra vittoriosa, che aveva consentito se non altro di allontanare dai confini ogni minaccia anche potenziale e aveva anzi inserito il Paese nel contesto dei dominatori, se pure non proprio con la voce più ascoltata, e la trasformò pian piano in uno stato isolato, militarmente e politicamente debolissimo, con potenze pericolose di nuovo al Brennero e preso da alleanze inutili e stringenti. Tutto questo avvenne, in primis, perché lo stato italiano divenne fascista, e smise di lavorare per la corretta ed efficiente gestione della macchina, preferendo invece un’adesione acritica al fascismo. Anche quando, o soprattutto, quando questa significava mentire sulle reali condizioni dello stato e del paese.
Uno stato autoritario, in sostanza, non è per forza di cose uno stato più efficiente e più forte. Anzi. E uno stato meno forte e meno efficiente potrebbe ricreare di nuovo i fallimenti in serie, soprattutto in politica estera, che hanno messo Erdogan nella condizione, secondo i suoi nemici, di dover essere rimosso. Solo che a quel punto non ci saranno più nemici e nessuno cui affibbiare colpe e contro cui aizzare la folla dei fanatici. La possibile reazione di sopravvivenza deriverà da un sistema in cui non c’è più differenza tra Stato e Partito, del tutto erdoganizzato, e dunque potrà svolgersi solo in due modi: se il sistema resta fedele al proprio creatore, cade con esso; se sceglie la sopravvivenza, lo rimuove. In questo senso non avere nemici politici in grado di manovrare o anche solo complottare è un rischio grave, in termini politici; senza contare il rischio sociale determinato dal licenziare in massa decine di migliaia di persone che potrebbero aver sviluppato, nel proprio piccolo, qualche leva di potere e qualche feudo. È possibile allora che sia proprio la paura di correre troppo, e di distruggere la macchina statale, a dover consigliare prudenza al Sultano trionfante, tentato di distruggere per sempre i traditori e i potenziali nemici. Non è detto, certamente, che questa prudenza basti a fermarlo; di sicuro non ci sono altri grossi ostacoli, e già i prossimi mesi ci diranno con chiarezza quale sarà la sua decisione. Ma è importante tenere a mente che non esiste neanche qui una decisione giusta: perché anche mantenere in piedi una parte significativa dello stato kemalista turco, Erdogan lo sa bene, significa dare forse, magari non subito, un’altra opportunità ai suoi nemici.

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Tommaso Giancarli

Nato nel 1980, originario di Arcevia, nelle Marche, ho studiato Scienze  Politiche e Storia dell'Europa a Roma. Mi sono occupato di Adriatico e  Balcani nell'età moderna. Storia e scrittura costituiscono le mie  passioni e le mie costanti: sono autore di "Storie al margine. Il XVII  secolo tra l'Adriatico e i Balcani" (Roma, 2009). Attualmente sono di  passaggio in Romagna.

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