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Economia

UTP, la prossima speculazione (cos'è e chi ci guadagnerà)

I gorssi investitori oggi puntano sul business delle "inadempienze probabili". Un affare da 80 mld di euro

E' come avere il marito che fa l’immobiliarista o la moglie arredatrice: non sai mai dove sono le cose e quando finalmente l’hai imparato, è già tempo di traslocare. Con le banche è così. Chi in questi ultimi tre anni si è sforzato di capire che cosa sono gli Npl e perché vengono venduti e comprati vorticosamente, ha sprecato il proprio tempo e adesso dovrà prepararsi ad almeno un lustro in cui la parola chiave sarà Utp. I maghi degli Npl, «non performing loan», in sostanza i crediti marci, sono pochi, maneggiano decine di miliardi di euro, e visto che il mercato si sta sgonfiando ecco che adesso la nuova «emergenza», insufflata da Francoforte, sede della Bce, e da Bruxelles, è la cessione degli Utp, «unlikely to pay», le inadempienze probabili. Creata la domanda, l’offerta è già pronta da tempo: servono solo campagne mirate per far sì che anche l’Utp, come l’Npl e lo spread, diventi uno spauracchio globale al cospetto del quale sbiancare i bilanci, alleggerirsi di personale, lasciare che Vigilanza e Regolatori dormano finalmente sonni tranquilli, senza che nessuno li trascini sul banco degli imputati quando il banco stesso salta.

In Italia, è un vero bengodi. Secondo gli ultimi dati della Banca d’Italia, tra il 2016 e il 2018 sono stati venduti 123 miliardi di Npl, che una volta avevano un nome esistenziale: «sofferenze». Questa montagna di crediti ormai irrecuperabili - se non in tribunale - viene estratta viva dai bilanci degli anni precedenti, deposta su una specie di tavolone di marmo, sbiancata, lavata, ricatalogata, mixata e impacchettata con tanto di fiocchetto. E venduta come merce nuova.

Solo nelle ultime settimane, sono partiti i primi lanci-stampa a favore dello smaltimento dell’Utp come se fosse il nuovo Npl. Il 17 giugno, per esempio, sul Sole 24 Ore è comparsa un’analisi così titolata: «Allarme banche: 79 miliardi di crediti incagliati in portafoglio». Tutto vero, ma la parola chiave è «allarme». E un recente studio di Pwc Italia, gigante della consulenza finanziaria e non solo, dedicato al mercato italiano degli Utp, lo definisce: «The Next Big Wave». La Nuova Grande Onda. Il senso è positivo, profuma di lauti margini: sarà per caso l’altra faccia dell’allarme?

Il mercato delle ex sofferenze è ricco, tuttavia già maturo. Nel 2016 valeva 55 miliardi di euro, l’anno dopo è sceso a 42 e il 2018 si è chiuso con operazioni per 26 miliardi. Insomma, in tre anni si è più che dimezzato e con queste tendenze la strategia è quasi obbligata. O si chiude, o si aspetta la prossima crisi bancaria, oppure si fa come con gli elettrodomestici: messo un forno nella casa di ogni consumatore, si passa ai microonde.

Il miglior alleato (involontario) dei compratori di sofferenze è la Bce di Mario Draghi e di Danièle Nouy. La signora Nouy è una super burocrate francese che ha guidato la Vigilanza bancaria dell’Eurozona per cinque anni con mano «nordica», ovvero avendo in mente un modello bancario lontanissimo da quello dell’Italia, e a novembre scorso ha lasciato la poltrona ad Andrea Enria, che a dispetto del passaporto italiano piace ai tedeschi perché molto indipendente da Roma e su posizioni da «falco» del rigore. Con questa continuità alla vigilanza Bce, e a pochi mesi dall’addio di Mario Draghi e della sua politica monetaria illuminata, le banche italiane sanno di non potersi aspettare un equo trattamento rispetto a un sistema ideologico (ma travestito da tecnico) che punta il dito contro la pagliuzza Carige e poi non si accorge della trave Deutsche Bank. O ritiene più rischioso, per un banca, zavorrarsi di Btp invece d'imbottirsi di derivati a orologeria, come hanno fatto molte banche del Nord Europa. Se poi succede che, per gli «stress test» condotti dalla Bce nel 2016 e nel 2018, la signora Nouy ha veduto bene di avvalersi della consulenza del fondo Usa BlackRock, il quale ha oltre 6 mila miliardi di capitale investito in tutto il mondo, compreso un buon numero di banche europee (a maggio ha tentato senza successo di rilevare Carige), allora il quadro di riferimento, ancorché incompleto, è abbastanza nitido per capire che la gestione dei crediti difficili ha davanti a sé un futuro molto rock e poco black.

In questa prima metà dell’anno, le mosse di due grandi istituti rendono l’idea di questa staffetta in cui il traguardo, ovvero i requisiti patrimoniali minimi di vigilanza, viene continuamente spostato in avanti. Ai primi di maggio esce su tutti i giornali la notizia che il Monte dei Paschi di Siena starebbe per piazzare almeno 6 miliardi di Utp. La Borsa di solito apprezza. A fine mese, l’ad Marco Morelli fa chiarezza e indica in «2 miliardi di Utp» l’obiettivo 2019, stante anche «la difficile situazione macro», insomma, spread, ripresa e dintorni. L’istituito senese, ormai controllato dallo Stato al 68 per cento, ha già raschiato il barile degli Npl e giustamente, con Francoforte addosso, deve andare in solaio a vedere che c’è rimasto. Invece il Banco Bpm ha concluso il 5 giugno il suo progetto «Ace», con la creazione di una piattaforma per il recupero di Npl in joint venture con il Credito fondiario (quote rispettivamente del 30 e 70 per cento), al quale ha ceduto 7 miliardi di Npl. Un’operazione interessante anche per lo schema, trasparente, che porta in superficie le «sliding doors» della sofferenza bancaria.

Nelle porte girevoli degli Npl, e domani degli Utp, troviamo innanzitutto il Credito fondiario, controllato dal fondo americano Elliott (partecipazioni di peso in Tim e nel Milan) e guidato dal direttore generale Iacopo De Francisco, che ha una lunga esperienza nelle banche con incarichi di vertice in Credito emiliano, Popolare di Milano e Popolare di Vicenza. Il Credito fondiario gestisce la bellezza di 45 miliardi di euro, con regolare licenza bancaria. Sul podio c'è anche la scandinava Intrum, leader mondiale del settore, nata nel 2017 dalla fusione della norvegese Lindorff con la svedese Intrum Justitia, con un fatturato globale da 1,3 miliardi di dollari. In Italia, Intrum è guidata da Giovanni Gilli (presidente) e Marc Knothe (ad), ed è il partner preferito di Intesa Sanpaolo.

Nel pacchetto di testa ci sono poi Cerved credit management e Prelios, marchi noti, e i giapponesi di doBank, (vedi box sopra). Cerved credit è affidata all’ad Andrea Mignanelli, che viene da McKinsey e non è un banchiere di formazione. Prelios è guidata dal ceo Riccardo Serrini, ma per le relazioni diplomatiche schiera un presidente come Fabrizio Palenzona, in passato al vertice di Unicredit. E con la matricola Illimity, l’anno scorso, ha fatto il suo ingresso in questo nuovo mercato un’altra vecchia conoscenza delle banche e della politica come Corrado Passera, ex ministro ed ex numero uno di Intesa.

Lando Maria Sileoni, segretario generale della Fabi, ovvero il maggior sindacato dei bancari, conferma che «la drammatizzazione degli Utp ne costituirà il terreno fertile prossimo venturo». Poi lancia una sfida al governo e alla Lega di Matteo Salvini: «La politica e il governo devono prendere decisioni su questa situazione esplosiva. Non si può lasciare che alla fine della filiera siano delle società di recupero crediti a decidere che fare dei cittadini, lasciando morti e feriti sul territorio». Il capo della Fabi è convinto che specie la Lega, con forti radicamenti locali al Nord, debba evitare di far esplodere il bubbone. Sarebbe una sorta di Equitalia 2, ma in versione privata. E anche il debitore, cartolarizzato o meno, prima o poi vota.

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Francesco Bonazzi