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(Ansa)
Economia

Il futuro della mobilità elettrica è davvero sui fondali oceanici?

Tutti a caccia di nodili polimetallici, con buona pace dell'ideologia green

Per anni l’estrazione mineraria sui fondali oceanici è stata un settore che sembrava lontano nel futuro, appariva più come un romanzo di Jules Verne che una concreta minaccia al più grande ecosistema planetario: gli oceani. Ora, però, il mondo li sta osservando e ci si comincia a porre il dubbio se l’estrazione mineraria sui fondali marini non sia nient’altro che l’ennesima devastazione ambientale perpetrata in nome del futuro del “Pianeta”.

Eppure meno di un anno fa bastava osservare i noduli polimetallici mentre il nastro trasportatore della Hidden Gem li caricava nella stiva della nave (leggi: La Transizione Verde Mette a Rischio gli Oceani) per rendersi conto come la vorace fame di metalli dell’energia verde avesse superato anche l’ultima frontiera: quella dei fondali marini. La nave di perforazione Hidden Gem della The Metals Company (TMC) era posizionata nella Clarion-Clipperton zone nell’oceano Pacifico e stava verificando il corretto funzionamento delle sue attrezzature minerarie. Come test vennero aspirate 3.600 tonnellate di noduli, una piccola frazione della produzione prevista a regime: 1,3 milioni di tonnellate di noduli all’anno.

L’intento della The Metals Company era quello di mandare un segnale chiaro agli azionisti ed ai potenziali investitori circa la concreta fattibilità dello sfruttamento minerario dei fondali oceanici. Il sistema per l’estrazione dei noduli polimetallici è costituito da una nave di supporto in superficie, un collettore di noduli telecomandato, un sistema di risalita e sollevamento ed un sistema di ricircolo delle acque reflue collegato alla nave per lo scarico dei sedimenti e delle acque di scarico (leggi Si Salveranno gli Oceani dal Green Deal?) .

Le uniche certezze sugli impatti per l’ecosistema di cui disponiamo sono che le conseguenze ecologiche per la biodiversità del mare profondo, seppure non ancora compiutamente definite, saranno di carattere intergenerazionale (leggi Gli Impatti Ambientali delle Miniere negli Oceani). Enormi parti del fondale marino, oltre 1,5 milioni di chilometri quadrati, sono già state autorizzate per la prospezione mineraria, molte delle quali in aree con un alto valore di biodiversità. Recenti analisi scientifichedimostrano che la perdita di biodiversità dall'estrazione in acque profonde sarà inevitabile, con buona pace degli obiettivi di sviluppo sostenibile, SDG, adottati dalle Nazioni Unite, in particolare del 14° obiettivo, che, ci spiegano, mira a gestire e proteggere in modo sostenibile gli ecosistemi marini e costieri dall'inquinamento.

Rispetto ai cambiamenti climatici in cui vengono misurate le emissioni di anidride carbonica, la perdita di biodiversità è più difficile da misurare e confrontare: gli impatti spesso sono dispersi lungo le catene di approvvigionamento e le informazioni e la trasparenza da parte delle aziende sulle sedi specifiche delle loro operazioni sono ancora limitate. Di tutt’altro spessore poi l’organizzazione che studia i cambiamenti climatici: si è istituito l’IPCC, si organizzano le COP per salvare il pianeta ed i governi si interrogano su come contrastare i cambiamenti climatici stanziando trilioni di dollari per raggiungere irrealizzabili obbiettivi di “emissioni zero”.

E mentre quotidianamente veniamo sommersi con previsioni di catastrofi imminenti dalla stampa mainstream, a livello globale, in un oscuro ufficio della Giamaica, si compie il destino del più grande ecosistema del Pianeta. E’ l’International Seabed Authority (ISA), l'Autorità per i fondali marini, una dimenticata agenzia delle Nazioni Unite che occupa un ufficio con 50 dipendenti a Kingston in Giamaica, che regge le sorti del Pianeta.

Oggi i “policymaker” cominciano ad interrogarsi. Pare si siano accorti che i calcoli erano stati fatti male, o forse non erano stati fatti per niente, se, come dice Gerard Barron, CEO di The Metals Company, l’estrazione mineraria sui fondali oceanici per salvare il pianeta è ineluttabile. Perché, continua Barron, in un pianeta con un miliardo di automobili, la conversione in veicoli elettrici richiederebbe molto più metallo di tutte le riserve terrestri esistenti. E coerentemente Barron dipinge The Metals Company non tanto come un’industria mineraria quanto piuttosto un’azienda nel business della transizione energetica, aziende che vogliono aiutare il mondo a uscire dai combustibili fossili con il minor impatto ambientale possibile (leggi: I “Benefattori” della Terra Che Condannano gli Oceani).

Oggi ci troviamo alle prese ad una categoria di ambientalisti per i quali c’è una catastrofe climatica incombente e prevenirla è più importante di qualsiasi altro valore etico o ambientale, oceani inclusi e, nel contempo, con un’altra categoria, quella che l’ambiguo segretario dell’International Seabed Authority (ISA) Michael Lodge definisce “estremisti ecologisti.” Costituita da coloro che temono che gli impatti ambientali dell’estrazione mineraria nell’ambiente marino profondo possano mettere a rischio il più grande ecosistema planetario la cui biodiversità è nota solo per l’1% e dove circa il 90% delle specie che vi risiedono non è stato nemmeno identificato dalla scienza.

Una categoria, quella degli “estremisti ecologisti”, che teme che i circa 21 miliardi di tonnellate di manganese, rame, nichel e cobalto, con un valore di centinaia di migliaia di miliardi di dollari, custoditi dagli oceani nella sola Clarion-Clipperton Zone, una pianura abissale ampia quanto gli Stati Uniti, possano svegliare i peggiori istinti di tutti quegli ambientalisti i quali sostengono che, per salvare il Pianeta da una catastrofe climatica incombente, vada affidato all’industria mineraria.

Tonnellaggio globale di metalli nei noduli polimetallici della sola zona Clarion-Clipperton rispetto ai depositi terrestri. I valori sono espressi in milioni di tonnellate.

Il realtà anche molti di coloro che oggi frenano sull’avvio dell’estrazione mineraria, formalmente per approfondire le conoscenze scientifiche sul ruolo dei fondali marini nell'immagazzinare il carbonio atmosferico o più in generale per consentire alla comunità scientifica di studiare l’ecosistema, tutto sommato, non vogliono bandirla. A cominciare dalla Cina che pur disponendo di più licenze di esplorazione di chiunque altro, rischierebbe di vedere compromesso il suo controllo sul futuro della mobilità elettrica se l'estrazione in acque profonde procedesse prima che Pechino fosse pronta ad assumerne il controllo. Per finire a tutti coloro che stanno aspettando, nel frattempo, che gli allarmi sulla catastrofe climatica incombente inducano le case automobilistiche occidentali, fino ad oggi in larga parte contrarie, e i loro clienti ad accettarla come una “male necessario”.

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Giovanni Brussato