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Economia

La "Generazione Debito" che dovrà salvare l'Italia

I giovani d'oggi sono condannati a lavori precari e malpagati. Eppure, come dice il saggio di Francesco Vecchi, dovranno pendere loro le decisioni per salvare il paese

Ci sono momenti in cui anche nel sistema di potere più corrotto e consociativo possono aprirsi squarci di verità, o quantomeno di coscienza di sé. Il 19 giugno del 1990, il settimo e ultimo governo Andreotti si dibatte nella consueta crisi finanziaria: mancano all’appello almeno 20 mila miliardi di lire. Colpa delle troppe lobby al lavoro in Parlamento e delle consuete mancette a pioggia che la Dc, il Psi e i loro piccoli alleati centristi hanno distribuito a mani basse per mantenere un consenso elettorale che appena un anno dopo verrà spazzato via dalle inchieste di Mani Pulite. Il ministro delle Finanze è Rino Formica, un socialista dal cattivo carattere, ma noto per acume e coraggio, e quel giorno gli scappa una profezia che ancora oggi stupisce: «Lo Stato è una groviera e i nostri figli ci malediranno».

Con un debito pubblico che aumenta di mese in mese ed è arrivato alla cifra astronomica di 2.247 miliardi di euro al 31 ottobre 2019, in effetti la tentazione di una qualche maledizione ci sarebbe anche, specie da parte di chi oggi ha 30 anni. Ma non è solo questo che si coglie in I figli del debito. Come i nostri padri ci hanno rubato il futuro (Piemme) del giornalista Francesco Vecchi, ricostruzione puntuale e senza indulgenze di come l’Italia è arrivata nel giro di 30 anni a creare le condizioni perfette perché i suoi giovani se ne vadano all’estero, disperdendo anni di sacrifici e di studi.

Oltre alla descrizione di una generazione che non può certo credere più di tanto nella politica ed è spesso costretta ad accettare lavori precari e mal pagati, nel saggio è indicata una possibile via d’uscita. Una strada che Vecchi ha voluto restasse nella piena ortodossia economica, ovvero che non passa per l’abbandono dell’euro o di una politica di bilancio in linea con quanto ci chiede l’Europa, ma prevede semplicemente una maggiore flessibilità e più coraggio nel tagliare le unghie a lobby e corporazioni varie. E soprattutto ripesca l’idea degli Eurobond, perché in fondo sarebbe giusto almeno poter emettere titoli del debito pubblico con la garanzia dell’Unione europea.

«Noi siamo la Debt Generation, siamo quelli che hanno dovuto cominciare a restituire i soldi, siamo quelli a cui hanno lasciato in eredità la bancarotta» scrive Vecchi, milanese, classe 1982. Che per condurre il lettore in questo viaggio nelle permanenti ristrettezze di bilancio dei governi italiani segue anche il filo della memoria personale e di una famiglia della buona borghesia meneghina. Una famiglia dove il padre ingegnere, prima manager di una multinazionale e poi imprenditore in proprio, non ha certo voluto danneggiare i propri figli, ma si è fatto comunque rappresentare da una classe politica che per mantenere il consenso elettorale ha dato tutto a tutti, a cominciare da pensioni troppo generose e con assegni che spesso, grazie alla leggina di turno, sono stati concessi intorno ai cinquant’anni. Mentre chi oggi ha meno di 40 anni rischia di dover andare in pensione quasi a 70 e con un trattamento economico ai limiti della sussistenza.

L’anno di svolta, non solo per il conto delle repubbliche (dalla Prima alla Seconda), è il 1992. Un anno passato alla storia per la famosa manovra-bancomat dell’allora premier Giuliano Amato sui conti correnti degli italiani, ma anche per la firma sugli accordi di Maastricht. Una firma poco meditata, sicuramente con effetti sul potere d’acquisto di salari e pensioni non spiegati in modo esaustivo e che una classe dirigente al tramonto ha voluto siglare con una fuga in avanti, nella convinzione che a un popolo così indisciplinato (anche sotto il profilo della fedeltà fiscale) servisse il cosiddetto vincolo esterno. Ovvero una specie di frusta extraterritoriale, lontana chilometri e chilometri dalle Alpi, capace di imporre una migliore disciplina di bilancio senza dover sottostare a quel ricatto delle urne che in astratto chiamiamo democrazia, ma che in alcuni casi diventa voto di scambio in conto terzi: tu mi voti, io ti lascio vivere al di sopra delle tue possibilità e il conto lo pagano le generazioni a venire. Allora, ecco che è proprio da Bruxelles che arrivano le prime richieste di rigore sui conti dell’Italia e la locuzione «debito pubblico», come nota Vecchi, fa improvvisamente capolino sui giornali italiani: «Per una generazione come la mia che sente parlare di debito pubblico tutti i giorni, è sorprendente scoprire che, tra il 1984 e il 1989, l’espressione “debito pubblico” comparve sulla prima pagina del Corriere della Sera solo cinquanta volte». È l’inizio del Terrore economico, anche se l’autore non scende sul terreno della psicologia sociale, e a tratti sembra egli stesso non volersi sottrarre del tutto, come quando ne ripropone un grande classico, ovvero la divisione del debito italiano per 60 milioni di persone, bambini compresi, in modo da ottenere una cifra choc che grava su ogni noi «alla nascita». Come se fosse possibile esigere un debito da un neonato e come se poi anche i Bot e Btp che un giorno si ereditano da nonni e genitori non fossero ricchezza vera. E il tema della solvibilità del debito pubblico italiano, che è il vero modo di opporsi all’ottusità di chi ci fa la predica dalla Finlandia avendo in garanzia le renne e poco di più, resta un po’ sullo sfondo, anche se Vecchi riconosce che non c’è una soglia scientifica del debito. E, assai coraggiosamente, ricorda che un modo per ridurlo in fondo c’è sempre e si chiama tassazione patrimoniale.

Il saggio osserva che nel 1992 eravamo «un treno in corsa lanciato verso il burrone». E che «in dieci anni, cioè dal 1982 al 1992, il rapporto tra debito e pil era passato dal 60 per cento a oltre il 100 per cento (oggi siamo al 133 per cento, ndr). Ma soprattutto, dal 1992 i governi di Roma cominciano stabilmente a prelevare dai cittadini più di quanto danno. E i giovani si trovano a correre, osserva l’autore, «con le mani legate dietro la schiena» laddove i genitori avevano goduto di una «mano invisibile» che pompava i loro consumi e i loro risparmi.

L’autore comunque non sbanda a sinistra e a un certo punto fa anche un’osservazione sicuramente impopolare: è prevalsa la stagione dei diritti su quella dei doveri. Ma vi aggiunge una documentata e sacrosanta tirata contro «la retorica dei diritti acquisiti», specie in ambito pensionistico, e poi racconta benissimo alcune storie di lavori di oggi, sottopagati e con evidenti profili di sfruttamento. Eppure, dopo anni di sacrifici e migrazioni, minori possibilità e «diritti differenziali» tra vecchi e giovani, nel 2019 tocca anche sentire Christine Lagarde, ex numero uno del Fondo monetario internazionale e ora presidente della Bce, affermare che «l’Italia è un pericolo per l’economia mondiale».

Come uscire da questa ingiustizia generazionale? Vecchi propone un mix di soluzioni molto pragmatico, rispolvera gli Eurobond e non esclude una patrimoniale o una qualche rinegoziazione del debito. Ma soprattutto, nel suo saggio, ha il merito di soffermarsi anche su temi poco amati dal pensiero dominante, come la denatalità, oppure la famosa Quota 100 delle pensioni, voluta con tanta forza dalla Lega nel precedente governo. «Con i 7 miliardi l’anno stanziati per Quota 100 si potrebbero fare altre cose» osserva, come «dare 15 mila euro a ogni nuovo nato in Italia. Non sarebbe un bel regalo di benvenuto? Non sarebbe un bello choc per far ripartire le nascite? Ma se domani si presentasse un candidato premier e dicesse “Abolisco Quota 100 e regalo 15 mila euro a ogni nuovo nato in Italia”, vincerebbe le elezioni? Temo di no». Tutta la politica è fare delle scelte con risorse limitate. Il problema è quando queste scelte, per oltre 30 anni, vengono fatte tutte contro una generazione, quella dei «Figli del debito». Anzi, dei figliastri.

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Francesco Bonazzi