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Economia

Decreto dignità, il ritorno al passato che scontenta tutti

Il provvedimento è accusato di introdurre più rigidità, di lasciare meno spazio di manovra alle imprese, e dell'incapacità di intercettare i cambiamenti

“E’ la Waterloo del precariato” annuncia Luigi Di Maio, in realtà il “decreto dignità” approvato dal consiglio dei ministri finirà per essere il trionfo del lavoro nero.

Lo dice l’impostazione stessa, al di là delle singole norme. Ci sono molte ragioni per le quali il debutto di Di Maio come ministro è un flop, destinato a diventare un boomerang, ma tutte possono essere riassunte in una motivazione di fondo: il governo giallo-verde intende costruire una impalcatura rigida nella quale inscatolare i posti di lavoro rendendoli più bloccati possibili.

Il retroterra ideologico consiste nel punire i datori di lavoro, il risultato sarà penalizzare i lavoratori. Nei Paesi che hanno raggiunto la piena occupazione, a cominciare da Svezia e Danimarca, si è seguita l’idea di fondo che ha ispirato lo stato sociale, cioè che il welfare accompagna il lavoro, adattandosi ai tempi nuovi. Così è stato riformato il welfare state nel nord Europa, in modo da seguire le attuali dimensione del lavoro, anzi dei lavori, perché il primo cambiamento radicale avvenuto in questo secolo è proprio il passaggio dal lavoro ai lavori.

La miopia sulla società che cambia

Di Maio sta facendo esattamente l’opposto e il resto del governo lo segue. Può darsi che il "capo politico" dei cinquestelle ne sappia una più del diavolo, non si può escludere che lui e i suoi consiglieri conoscano per esperienza personale oltre che per dottrina, come funziona il mercato del lavoro nell’era digitale, ma è lecito dubitarne.

I nuovi lavori vanno tutelati, però la protezione deve adattarsi alle mutate condizioni storiche, economiche, sociali.

Di Maio vuol vendere il suo decreto raccontando di aver cominciato a “smantellare il Jobs act” il cui perno è l’abolizione dell’articolo 18 sui licenziamenti senza giusta causa.

Invece, la riforma introdotta da Matteo Renzi rimane (nemmeno Di Maio è così incosciente da cancellarla), compensata con una norma che rischia di rendere il tutto sempre più farraginoso.

In sostanza, il nuovo decreto dispone di aumentare del 50% gli indennizzi. Una pacchia per gli avvocati, un intasamento ulteriore per le cause di lavoro.

Il posto fisso, dalla scuola dell’obbligo alla pensione, retaggio del passato, non solo è illusorio, ma è negativo, perché riduce la qualità della forza lavoro che oggi ha bisogno di cambiare mansione e anche tipo di impiego.

Il capitale umano viene depauperato se resta inchiodato sempre alla stessa macchina o alla stessa sedia. E’ un paradosso che dopo essersi battuti per superare il fordismo, oggi si voglia niente meno che ripristinarlo.

Il nuovo eroe dei cinquestelle, così, finisce per diventare lo Charlot di Tempi Moderni che per un secolo il movimento operaio aveva considerato l’incubo da esorcizzare.

L’impostazione punitiva trova una ulteriore espressione nella proposta di penalizzare (da 2 a 4 volte il beneficio ricevuto) le aziende che hanno utilizzato gli incentivi pubblici di industria 4.0 e poi vogliono “delocalizzare” (il limite temporale è di 5 anni).

Non si capisce se verranno applicate anche ai Paesi europei che sono quelli in cui sono andate perlopiù le imprese italiane (Germania e Francia non solo Albania e Romania).

A parte questa lacuna nient’affatto trascurabile, la filosofia è sempre la stessa: penalizzare chi vuole espandersi aldilà dei confini nazionali per proteggere l’orticello di casa.

Il discrimine tra investimento all’estero e delocalizzazione è sempre sottile, mentre i cinquestelle lo considerano comunque un gesto di lesa maestà nazional-popolare.

Insoddisfazione generalizzata

Il battesimo ministeriale di Di Maio ha suscitato sconcerto e riprovazione da parte di tutte le lobby, le organizzazioni professionali, le confederazioni che pure nei mesi scorsi avevano lisciato il pelo ai grillini.

Lapidario il commento di Alessio Rossi, presidente dei giovani di Confindustria. Il “decreto dignità - ha detto - fa sorridere, perché inserire la dignità per decreto a me fa sorridere. Sembra un ritorno al passato”. "In attesa dell'annunciata riduzione del costo del lavoro, tutta da verificare, il governo decide di fare una grave marcia indietro sui contratti a termine introducendo, di fatto, forme di inutile e dannosa rigidità", ha spiegato la Confcommercio, "se l'obiettivo era quello di favorire la creazione di nuova occupazione, si va invece nella direzione opposta con l'aggravante di creare un periodo di incertezza e un ritorno del contenzioso. Le imprese del terziario e del turismo che hanno creato nuova occupazione, anche durante le crisi - sottolinea la confederazione - avranno dunque un freno allo sviluppo e agli investimenti".

La Confesercenti se la prende con gli interventi sui contratti a termine (il limite massimo scende da tre a due anni): "Se da una parte riteniamo condivisibile cercare di stabilizzare l'occupazione - si legge in una nota - e dare le giuste garanzie ai lavoratori, dall'altra non possiamo accettare la penalizzazione delle imprese, che garantiscono il lavoro in primo luogo".

Un ulteriore aumento degli oneri per i contratti a tempo determinato, stima l'associazione, si trasforma in un aggravio stimato in oltre 100 milioni di euro l'anno, di cui più della metà verrà sborsato già quest'anno, visto che scadranno il 55% dei contratti”.

L’elenco degli scontenti è lunghissimo e comprende Confapi, Confimprese, gli operatori nel settore dei giochi per il blocco della pubblicità delle scommesse.

Il rischio, anche qui, è di favorire quelle clandestine. Le imprese non vengono nemmeno ricompensate con le tasse. Il pacchetto “fisco facile” è uscito molto annacquato dal consiglio dei ministri. Il redditometro non viene abolito (ci sarà bisogno di un nuovo provvedimento per gli accertamenti dal 2016), lo spesometro non viene toccato (in realtà è già superato dalla fattura elettronica) e lo split payment che consente alla pubblica amministrazione di trattenere l’Iva, sarà abolito solo per i professionisti, altrimenti si sarebbe verificato un crollo del gettito fiscale.

Insomma, più rigidità, meno spazio di manovra alle imprese. La Cgil di Luciano Lama avrebbe protestato, quella di Susanna Camusso ha negoziato. Per un piatto di lenticchie. 

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Stefano Cingolani

Stefano Cingolani, nasce l'8/12/1949 a Recanati e il borgo selvaggio lo segna per il resto della vita. Emigra a Roma dove studia filosofia ed economia, finendo a fare il giornalista. Esordisce nella stampa comunista, un lungo periodo all'Unità, poi entra nella stampa dei padroni. Al Mondo e al Corriere della Sera per sedici lunghi anni: Milano, New York, capo redattore esteri, corrispondente a Parigi dove fa in tempo a celebrare le magnifiche sorti e progressive dell'anno Duemila.

Con il passaggio del secolo, avendo già cambiato moglie, non gli resta che cambiare lavoro. Si lancia così in avventure senza rete; l'ultima delle quali al Riformista. Collabora regolarmente a Panorama, poi arriva Giuliano Ferrara e comincia la quarta vita professionale con il Foglio. A parte il lavoro, c'è la scrittura. Così, aggiunge ai primi due libri pubblicati ("Le grandi famiglie del capitalismo italiano", nel 1991 e "Guerre di mercato" nel 2001 sempre con Laterza) anche "Bolle, balle e sfere di cristallo" (Bompiani, 2011). Mentre si consuma per un volumetto sulla Fiat (poteva mancare?), arrivano Facebook, @scingolo su Twitter, il blog www.cingolo.it dove ospita opinioni fresche, articoli conservati, analisi ponderate e studi laboriosi, foto, grafici, piaceri e dispiaceri. E non è finita qui.

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