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(Ansa)
Economia

Auto elettrica: le case si preparino «a scavare»

È partita la corsa al litio, che si gioca sottoterra tra big dell'economia mondiale, Musk compreso

Ci aveva pensato per primo il solito Musk quando nel 2020 al Battery Day aveva annunciato che Tesla aveva acquisito i diritti su una concessione di circa 4.000 ettari in Nevada dove estrarre il litio. All'epoca, Musk sosteneva che Tesla avrebbe estratto il litio dai depositi di argilla utilizzando un processo “made in Tesla” su cui al tempo molti esperti del settore ironizzarono. Ma un altro annuncio, in quella sede, fu un segnale per le case automobilistiche che era finito il tempo di stare alla finestra, che se volevano entrare nel futuro delle auto elettriche avrebbero dovuto “sporcarsi le mani”: il progetto di un impianto per la produzione di idrossido di litio in Texas per approvvigionare la futura terafactory ed il conseguente ingresso di Tesla nella produzione chimica del litio.

Il nuovo impianto di conversione e raffinazione trasformerà il concentrato di spodumene, un minerale da cui si estrae il litio, in idrossido di litio specifico per l'utilizzo nelle batterie, un processo che oggi si verifica tradizionalmente in Cina. Da allora il progetto ha avuto una serie di ritardi ma ormai sembra definitivamente avviato e consentirà a Tesla di controllare i costi in questa fase della catena di approvvigionamento diventati critici visto il recente aumento di circa 2.000 dollari dei suoi listini per compensare la crescita esponenziale dei costi della materia prima.

Oggi il quadro sta evolvendo sempre più rapidamente, con la crescita della consapevolezza che nei prossimi anni non ci sarà sufficiente materia prima sufficiente per tutti i produttori di auto elettriche. La mancanza di approvvigionamento non è dovuta a vincoli geologici, almeno per il momento, quanto alla scarsità di capitali negli investimenti necessari a costruire le miniere di domani. Per quanto ogni analista interpreti i dati a modo suo la tendenza più consolidata dipinge un mercato in crisi di offerta di idrossido e carbonato di litio per circa 300.000 tonnellate all’anno entro il 2030, mentre l'offerta di solfato di nichel potrebbe restare al di sotto della domanda prevista di oltre 400.000 tonnellate. Analoga sorte per il cobalto, si stima in oltre 75.000 tonnellate il deficit, e la grafite, necessaria alla produzione anodica, per quasi 2 milioni di tonnellate entro la fine del decennio.

In questo quadro vanno lette le indiscrezioni circa l’interesse di Tesla all'acquisto di una partecipazione nel gigante delle materie prime Glencore, con cui ha già in essere accordi per la fornitura di cobalto che il Gruppo minerario svizzero estrae dalle sue miniere nella Repubblica Democratica del Congo.

Il momento per Glencore non è dei più semplici e, malgrado i colossali utili realizzati nel primo semestre dell’anno grazie al carbone, deve affrontare una serie di costose cause legali dovute alle tangenti che i dipendenti di Glencore hanno pagato alle compagnie petrolifere statali nei paesi dell'Africa occidentale, tra cui Nigeria, Sud Sudan e Costa d'Avorio. Peraltro Glencore ha già dichiarato di aver fatto un accantonamento di 1,5 miliardi di dollari per coprire le sanzioni statunitensi, brasiliane e britanniche.

A prescindere se l’accordo diventerà o meno realtà è ormai evidente che le case automobilistiche dovranno entrare nell’industria mineraria per finanziarla al fine di garantirsi gli approvvigionamenti necessari per rimanere nel mercato. Agli OEM è ormai evidente che gli incentivi ai consumi non sortiscono effetti sperati nella reattività delle compagnie minerarie che dovrebbero fornire loro le materie prime.

All'inizio di quest'anno il gruppo Stellantis ha firmato un accordo di fornitura di litio con Vulcan Energy Resources e ha dichiarato che avrebbe investito 50 milioni di euro per acquistare una quota dell'8% della società.

Anche gli accordi di offtake di Stellantis con GME Resources per la fornitura di nichel e solfato di cobalto, secondo entrambe le parti, rappresentano il primo passo verso una potenziale partnership a lungo termine.

Più recente l’annuncio di General Motors che investirà circa 69 milioni di dollari per acquisire una partecipazione azionaria in Queensland Pacific Metals al fine di garantirsi forniture di nichel e cobalto per le batterie da utilizzare nei loro veicoli. L’accordo è finalizzato anche a rispettare l'Inflation Reduction Act (IRA) statunitense che prevede l’erogazione dei sussidi solo per le auto costruite con le materie prime estratte o trasformate negli Stati Uniti o nei partner di libero scambio, come l’Australia, per l’appunto.

I timori di carenze di approvvigionamento, che potrebbero rivelarsi fatali, ha spinto GM a stipulare un accordo con Livent Corp per una fornitura garantita di litio per i prossimi sei anni pagando in anticipo l’intero costo della fornitura pari a 198 milioni di dollari. E’ inusuale nell'industria mineraria il pagamento anticipato per una fornitura di metalli ma serve a spiegarci come le case automobilistiche stiano percependo il rischio rappresentato dalle attuali supply chain del settore e come i prezzi saranno destinati a crescere in futuro.

Diversa la strada seguita dalla Ford Motor che chiede all'amministrazione Biden di accelerare il processo di autorizzazione per l’apertura di nuove miniere di “metalli della transizione” negli USA. Questo è un provvedimento che potrebbe mettere in grave imbarazzo l’Amministrazione Biden perché l’inefficiente processo autorizzativo rende praticamente impossibile investire nell’attività estrattiva negli USA. Inoltre, come in Europa, i tempi medi per il completamento dell’iter sono di circa 10 anni mentre in Canada e Australia i medesimi processi richiedono solo due o tre anni. Il Presidente Biden, in campagna elettorale, per compiacere l’elettorato ambientalista, si è speso contro l’apertura della miniera di Pebble in Alaska e quella di Twin Metals nel Minnesota entrambe importanti depositi proprio di quei “metalli della transizione” che oggi gli USA devono importare. Recentemente Twin Metals, una controllata della compagnia mineraria Antofagasta, ha citato in giudizio il Governo degli Stati Uniti perché non le è stato consentito dall’Amministrazione Biden di dimostrare che il suo progetto può soddisfare gli standard ambientali.

Quello dei requisiti ambientali è un’altra delle tegole piovute in capo alle case automobilistiche che non possono permettersi di essere troppo espliciti con i loro clienti, convinti che l’acquisto di un’auto elettrica aiuti il Pianeta, su tecnologie come la “lisciviazione acida ad alta pressione”, HPAL, o “lo smaltimento degli sterili in mare”, DSTD, pratiche comunemente usate nell’industria mineraria ma il cui impatto ambientale è devastante per gli ecosistemi che lo devono subire. Ed ecco quindi anche le case automobilistiche tedesche, Volkswagen e BMW, affannarsi a spiegare che loro no, non accetteranno mai per le loro batterie, i metalli estratti dai fondali oceanici, l’ultima frontiera dell’industria mineraria per cercare di sfamare il vorace appetito per i metalli della nuova mobilità sostenibile.

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Giovanni Brussato