Dove porta la guerra europea ai giganti americani della tecnologia
Il Vecchio Continente rischia di finire schiacciato dal peso dei colossi d'Oltreoceano. E tenta di reagire come può
Ben Smith, il direttore del tanto celebre quanto cliccato sito BuzzFeed, ha detto di recente due cose interessanti collegate tra loro. Che la tecnologia non è più la sezione di un giornale, ma è cultura. E che viviamo un momento di «pazze opportunità» (traduzione letterale), in cui le trasformazioni economiche di massa sono guidate da quanto avviene nella Silicon Valley. Verissimo, se si pensa che in uno spazio di una manciata di chilometri si concentrano colossi del calibro di Google, Apple, Facebook. Ampliando un minimo la prospettiva, estendendo il ragionamento a tutti gli Stati Uniti, nel calderone entrano Microsoft e Amazon.
Un polo di macchine per soldi e innovazione, che ha come rivale all’altezza soltanto l’Asia, patria di Samsung, LG, Tencent, Huawei, Lenovo e altre realtà emergenti o già al galoppo. L’Europa, la cara antica lenta Europa, in tutto questo è confinata al ruolo di provincia dell’impero, di nobile decadutissima che ha perso molto, se non quasi tutto il suo potere – lo shopping di Nokia da parte di Redmond è solo uno dei tanti recenti esempi che si possono fare – e sembra rassegnata alla sua posizione di rincalzo goffo e persino un po’ buffo: brontolare, puntare i piedi, cercare di ritagliarsi un suo spazio non con la leggerezza delle idee, ma con il peso delle norme.
Eppure l’Ue, intesa tanto quanto spazio fisico che come istituzione, non ha tutti i torti: diverse situazioni dimostrano come le signore dell’hi-tech vedano il nostro continente come un territorio di conquista e, in parte, come una zona franca in cui imporre una sorta di colonialismo culturale. L’accusa non è nuova, è vero, anzi è esattamente la medesima che veniva mossa agli Stati Uniti quando imponeva, o importava a grande richiesta (questione di prospettive), i suoi marchi nei decenni passati, minacciando il benessere di quelli locali. Se in parte le critiche avevano un senso nell’era della fisicità, lo stesso vale oggi nell’epoca del digitale.
Amazon, pochi mesi fa, è finita sotto accusa in Gran Bretagna per le condizioni limite in cui lavorerebbero i suoi addetti in un centro di smistamento inglese e lo stesso è avvenuto in Germania, dove la società di Jeff Bezos avrebbe anche imposto alle aziende tedesche che vendono attraverso il celebre portale di e-commerce, di non offrire prezzi più convenienti altrove; Google, oltre al dibattito infuocato per il diritto all’oblio, ha fatto scalpore a Bruxelles perché avrebbe detto ad alcuni artisti ed etichette indipendenti che per non essere rimossi da YouTube, dovranno essere presenti nel suo servizio di streaming musicale in arrivo. Non proprio un eccesso di fair play.
Facebook è stato accusato di compiere test per manipolare le nostre emozioni , notizia che ha fatto infuriare non solo questa parte dell’oceano, ma in tutto il globo. In generale, tutte le big della tecnologia utilizzano meccanismi fiscali loro favorevoli, collocano le sedi europee in Paesi come Irlanda e Lussemburgo, per pagare meno tasse. Utilizzando, in verità, metodi diffusi anche tra aziende che operano nei beni e nei servizi, non solo nel virtuale.
Sempre Big G darebbe meno rilevanza nei risultati delle sue ricerche ai concorrenti, magari piccoli, che offrono servizi analoghi a quelli proposti da Mountain View. A meno che, certo, non facciano investimenti pubblicitari per promuoversi. Un atteggiamento che ha fatto finire Google sotto la lente d’ingrandimento della Commissione Europea, abbonata nel bacchettare la creatura di Brin e Page, forse con la stessa insistenza e frequenza che prima riservava a Microsoft.
Se non è una guerra poco ci manca, peraltro, come visto fin qui, tutt'altro che infondata. Il problema è che è fatta, dal nostro fronte, di annunci, proclami, promesse di intervento e pochi atti pratici. Il commissario Almunia ha dichiarato che «nel contesto corrente di budget pubblici ristretti, è particolarmente importante che le grandi multinazionali paghino la loro giusta quota di tasse». Il tutto mentre Apple, giusto per citare un esempio fatto dagli stessi esperti della Commissione Europea, nel 2013 ha versato solo il 3,7 per cento di tributi sui suoi profitti internazionali. È un riferimento un po’ demagogico, funziona per riscaldare gli animi, ma è evidente che ognuno di noi paga tanto di più.
Non è in compenso solo un problema di norme, di creare una situazione in cui ai benefici di operare in un determinato territorio, corrispondano adeguati obblighi e doveri. L’Europa, nel suo eccesso di burocrazia, nel suo localismo geloso e a volte esageratamente cocciuto, non riesce a valorizzare quanto di buono potrebbe rilanciarla, non costringerla solo a raccogliere innovazioni d’importazione, a essere una somma di Stati di piccola e media grandezza.
Il caso di scuola chiama in causa il peso strategico degli operatori di telefonia mobile, dall'inglese Vodafone a Deutsche Telekom fino alla nostra Telecom Italia. Gli americani hanno un bacino di riferimento di 310 milioni di utenti, l’Europa arriva a 500, 200 milioni in più. Se si facesse un passo in avanti, se si creasse un terreno e un mercato comune, potrebbe nascere, almeno in questo comparto, una realtà in grado di sorpassare o comunque vedersela con gli Stati Uniti, anche e soprattutto in vista di imminenti sfide da cogliere come il 5G e altre scommesse che potrebbero rendere questo continente un po’ meno vecchio. Con le armi meno spuntate e un po’ più al passo con i ritmi surriscaldati del digitale.
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