Vittorio Russo, 'L'India nel cuore': un sogno d'eternità
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Vittorio Russo, 'L'India nel cuore': un sogno d'eternità

Abbiamo viaggiato in un tempo e in una storia della vita che non sono nostri, dice Vittorio Russo riabbracciando l'India trent'anni dopo. Il suo reportage ci accompagna in luoghi di eccezionale bellezza, mistici e leggendari. Ma soprattutto scoperchia quella "cassaforte di umanità" che, secondo la splendida definizione di Tiziano Terzani, è ancora oggi l'India

Ci sono libri che soddisfano la ragione, libri che stimolano la curiosità e la sete di sapere, libri (pochi) che arrivano direttamente al cuore. L'India nel cuore di Vittorio Russo è una gioiosa eccezione capace di parlare simultaneamente a entrambi gli emisferi del nostro cervello. Il viaggio si snoda da Delhi a Jaipur, da Agra a Orcha e a Khajuraho per finire a Varanasi, la città archetipo che "c'era già prima", forse l'unico luogo al mondo dove il dolore non gode di nessuna considerazione e la morte coincide con un banale istante del ritmo della vita.

Tornare in India dopo tanti anni è ritrovare il paese degli equilibri impossibili, delle contraddizioni supreme, della spaventosa indigenza e dello sviluppo economico, della serenità indicibile e dell'arcaica assuefazione al dolore. Con alcuni compagni Vittorio Russo visita templi e moschee, assiste a riti, attraversa campagne e città nel flusso allucinato e cacofonico. Intanto registra ogni umore e sensazione. Le sue parole si caricano di un'energia spaventosa, sostano a esplorare gli innumerevoli rivoli di un sapere millenario e non si arrendono davanti al mistero.

Anzi proprio dove gli occhi non riescono più a vedere né le categorie a interpretare, l'India appare scandalosamente nuda nella sua eterna fascinazione. Qui il lettore prova, per un istante di grande intensità, l'emozione di trovarsi insieme al narratore nel cuore di un esperimento collettivo di rivoluzione della coscienza.

Scrittore e studioso delle origini del Cristianesimo, Vittorio Russo racconta l'Induismo e la sua fabbrica di miti come un canto che rapisce. L'India nel cuore è anche la storia di un dialogo tra diverse civiltà e fedi religiose sotto il segno della tolleranza, un impegno costante che gli è valso il 30 settembre scorso il riconoscimento di Ambasciatore di Pace da parte del sindaco di Assisi, nell'ambito del meeting L'Oriente incontra l'Occidente. Gli abbiamo rivolto alcune domande.

Nel tornare in India dopo 30 anni, quali erano le sue aspettative e qual è il cambiamento più significativo che ha incontrato?
Sono ritornato in India con l’arroganza del curioso. Ho ritrovato intatta la povertà antica dei villaggi, intatto lo sguardo dolce delle madri e dei bambini. In più ho ritrovato il caos di una modernità travolgente come un monsone e che impoverisce valori antichi e tradizioni di gente non pronte a questo diluvio. E stato il primo schiaffo violento del ritorno. Avevo dimenticato il primo di tanti anni prima.

Nel libro c’è un dialogo ideale con i grandi intellettuali che hanno fatto "esperienza dell'India" come Pasolini, Moravia, Manganelli, per restare in ambito italiano. Perché questo paese rapisce con la sua fascinazione le “nature scettiche e pragmatiche”?  
Devo riconoscere che è spesso così. Grandi viaggiatori del passato sono partiti con il pregiudizio etnocentrico degli occidentali. Figure di silenziosi esploratori del sacro come Matteo Ricci, Roberto De Nobili, Jules Monchanin, Henri le Saux e laici come Niccolò Manucci, poeti dell’indagine come Pier Paolo Pasolini e più di recente Tiziano Terzani, forse non tutti erano scettici e pragmatici. Tutti però come me sono stati verosimilmente conquistati da una civiltà plurimillenaria e dalla profondità della sua estesa speculazione teologica. Di esse si avverte tutta l’autorevolezza, ancorché avvolta nei veli di povertà e degrado, antichi alla stessa stregua. Credo che la spiritualità di un tempio in India, non importa espressione di quale fede esso sia, abbia il potere di immergere il visitatore in un sogno di eternità.

Il rapporto degli indiani con la religione è molto diverso rispetto all'Occidente. Cristianesimo e Induismo sembrano agli antipodi, eppure...
No, Cristianesimo e Induismo non sono agli antipodi. Il poeta vedico invocava un dio assoluto perché guidasse il suo spirito dall’oscurità alla luce e dalla morte all’immortalità, fissava il valore universale di una triade eterna cui si rifà la natura naturans di Baruch Spinoza, adombrava la verginità di una dèa madre, sostanza universale del principio femminile, e concetti come la reincarnazione che altro non è se non il bisogno di immortalità. Dei medesimi concetti troviamo tracce nei frammenti orfici e con Pitagora, Platone e poi Giamblico sono giunti nel Cristianesimo intatti. L’Induismo e il Cristianesimo in realtà non sono che la fase più recente di un’idea del sacro molto anteriore che fa dell’India la terra madre delle religioni.

L’Induismo è nel contempo filosofia e pratica di vita, richiede appartenenza e devozione ma mira al distacco, è un incredibile coacervo di opposti, almeno all’apparenza. Come ci si raccapezza da occidentali?
Difficile percepire il filo unitario che collega pensieri e comportamenti così spesso contrapposti, talvolta perfino sgradevoli per la nostra sensibilità, senza rimuovere la spesse stratificazioni che hanno finito per sfocare l’idea dell’unità originaria. Per millenni l’India è stata una grande teocrazia che ha fissato nella cornice del sacro ogni aspetto del quotidiano e stimolato nell’indiano quella ricerca della chiave nascosta di ogni cosa in se stesso. Allenando il corpo al superamento della realtà che è frutto dell’illusione (la maya), egli tenta di infrangere le rappresentazioni del reale che sono solo categorie amplificate dell’io. E allora diventa meno sbalorditiva la comprensione di quell’atarassia, quella placidità dello spirito immerso in dimensione supreme che comporta ciò che i greci chiamavano apàteia, l’indifferenza al dolore.

Il 2 ottobre si è celebrato l’anniversario della nascita di Gandhi, a cui lei ha dedicato delle splendide pagine, e la giornata mondiale della non violenza. Qual è il nucleo più attuale della lezione del Mahatma? Perché la sua figura è rimasta ineguagliata, perfino in India, malgrado i connazionali ne condividano la mite e insieme tenace visione?
A leggerne il profilo a poco più di sessant’anni dalla morte, Gandhi sembra essere vissuto in epoche leggendarie, lontano dagli sfracelli di un mondo inzuppato di violenze e pregiudizi. La sua arma è stata la forza incredibile della sua tenacia molto più che il sentimento della non violenza (ahimsa, propria del Jainismo) per il quale soprattutto è noto. Gandhi è la Grande Anima di un popolo cui ha voluto trasmettere molto più che un concetto di non violenza cui per cultura gli Indiani sono educati da sempre, ha voluto trasmettere uno stimolo alla perseveranza e alla tenacia cui per cultura gli indiani sono invece meno inclini. Gandhi diventa un’icona universale per un profilo della sua personalità che forse non è il più originale. Merita però di essere figura immortale per la sacralità del valore planetario della non violenza del cui vessillo l’umanità ha bisogno oggi più che mai.

Fra i momenti più emozionanti del libro c'è l’arrivo a Varanasi. Come è riuscito laggiù a coniugare lucidità e passione?
Ne sono stupito e confuso io per primo. Soprattutto perché nelle pagine del libro si coglie solo il riflesso del visto e del percepito con sensi vigili. La scrittura però è già decantazione del turbamento, è l’effetto meditato delle cose viste. Ricordo invece con emozione irriducibile lo sforzo di riprendere con una telecamera occhi innocenti di bambini sgranati sul mio volto, mani tese a chiedere l’elemosina di una rupia e bocche schiuse e senza voce a implorare carità. Quante volte ho visto l’obiettivo della mia macchina fotografica come un’arma puntata sulla faccia dell’innocenza, del dolore, della sofferenza! Costa molto descrivere freddamente immagini forti e definitive. Io, in verità, non ci sono riuscito. Avrei voluto scrivere un libro che parlasse dell’India, ho scritto invece L’India nel cuore.

Che consiglio si sente di dare a un giovane viaggiatore, carico di aspettative, che si appresta a partire per l’India?
Di entrare in questo Paese attraverso una delle sue mille porte in punta di piedi, senza arroganza culturale, allenando i sensi a quella capacità di sinestesia che consiste nel percepire immagini, suoni, odori, colori con un senso unico: il buon senso. Quello dell’umiltà con cui si può avvertire, nella luce che non si vede di un tempio indiano, la vibrazione di una materia imponderabile come il profumo dei fiori selvatici e, nel suo silenzio, il ronzio di api affamate di cui si colmano i loro calici.

Vittorio Russo
L'India nel cuore
Baldini&Castoldi
410 pp., 20 euro

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Michele Lauro