Tre occhi inattuali
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Tre occhi inattuali

Avendo orrore dei discorsi che cominciano con «nell’epoca di internet e della massima visibilità…», «Nell’era in cui il Panopticon è diventato realtà…», «Proprio mentre si sta pensando di trasformare l’occhio in un mouse…», ho molto apprezzato il tono dell’articolo di …Leggi tutto

Avendo orrore dei discorsi che cominciano con «nell’epoca di internet e della massima visibilità…», «Nell’era in cui il Panopticon è diventato realtà…», «Proprio mentre si sta pensando di trasformare l’occhio in un mouse…», ho molto apprezzato il tono dell’articolo di Chiara Pasetti sull’ultimo numero di Domenica, in cui annuncia l’uscita dei cataloghi delle due mostre su Odillon Redon che si sono tenute al Gran Palais di Parigi e al Musée Fabre di Montpellier, e non perché sia anacronistico, o forse non solo, ma in primo luogo perché non cerca facili metafore con l’attualità.

Una delle malattie di oggi è infatti quella di cercare di dare diciamo mordente ad alcune opere del passato mettendole a confronto, o in rapporto di contiguità, con quelle del presente ipermediato e iperconnesso. Come se non si potesse parlare di dinosauri senza metterli in scala e in competizione col bosone di Higgs (cosa che qualcuno, pure, fa).

Odillon Redon è quello che mise l’occhio in una mongolfiera, e dedicò il disegno a Edgar Allan Poe.

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L'oeil comme un étrange ballon se dirige vers l'infini

I suoi disegni compaiono nello studio del protagonista diControcorrente di Huysmans, personaggio ispirato tra l’altro dallo stesso Redon.

Era un attimo partire da quell’occhio e arrivare al mouse che si muove con le palpebre, fare tutto un giro metaforico per dire che il villaggio globale è stato raggiunto da tutte le ciglia della mongolfiera e chissà che altro. E invece, per fortuna.

Tuttavia, è significativo che nell’epoca della massima visibilità, da e verso l’organo della visione, non ci siano in giro racconti e romanzi che lo pongano al centro di una qualche vicenda simbolica. L’occhio è sparito dai racconti del presente, come se non servisse che a osservare, piattamente, e non basta chiamare narrazione la descrizione del presente per nobilitarla.

L’occhio è tornato nel cranio, in modo pacifico e indolore, e la realtà dei romanzi è più simile alla famosa parete della caverna: noi osservatori di qua, lei, materiale o immateriale, di là.

L’occhio non è più al centro della scena, a meno di non andare a scovare il pixel dentro le visioni e le estasi dei santi come si va a stanare l’immagine sublimale di un pene sui pacchetti delle sigarette.

Ovviamente non basta andare a guardare su Amazon i titoli in cui l’occhio compare, infatti il più bello, godibile ma (quindi) non perturbante, nemmeno compare nella lista, forse perché è al plurale.

Ci sono occhi sparsi in McEwan, in Roth, innumerevoli coppie di occhi in Pamuk, ma sono tutti, noiosamente, occhi che si innamorano, strabuzzano, vedono.

Non per essere inattuali a tutti i costi, ma voglio spiegare cosa intendo.

Nel 1930, sulla rivista émigrée russa «Sovremennye Zapiski» di Parigi esce un «romanzetto» il cui titolo secondo la traslitterazione classica suona Sogljadataj, che significa “spia”, “osservatore”.

Nei primi mesi del 1965 il romanzo esce in tre puntate su Playboy: per il titolo, l’autore ha fuso sapientemente senso e suono della parola originaria, chiamandolo The eye, per restituire il gioco di “I”, “-aj” e “eye”. In italiano si chiama L’occhio, e l’autore è Vladimir Nabokov.

È la storia raccontata in prima persona da uno che si è appena sparato al cuore, producendo un «delizioso tintinnio» udibile all’interno.

Perché L’occhio? Nella prefazione, dove definisce questa storia «romanzetto», Nabokov dice che si tratta di un’indagine che guida il protagonista in un inferno di specchi, ma poco prima aveva detto con malizia che i freudiani gli svolazzano avidamente e inutilmente intorno.

Infatti non serve ostinarsi a identificare l’eye con l’I: tutto è preso dentro quella vertigine deliziosa dello sparo e del sangue gorgogliante, e quella vulnerabilità e massima vigilanza che per il protagonista sono causa del suicidio sono annullate dal gesto più catastrofico che esista: uno sparo nel cuore, la messa a nudo autoptica dei propri organi per eccellenza.

Insomma, qui l’occhio non è una metafora, semmai è il risultato di una minuziosa nomotizzazione: il corpo, con tutta la sua biografia, arretra e si fissa nel dettaglio. La conclusione non spiega nulla, è anzi vagamente irridente; l’apparente frivolezza dell’ottimismo post-mortem che Nabokov inventa è di una destrezza strepitosa:

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In questo finale risiede il legame di quell’occhio con la propria epoca. Non è un caso che il racconto sia uscito su Playboy.

Secondo esempio. Cento anni prima, cioè nella piena “febbre del doppio” che invade la letteratura e l’arte dell’800 (un esempio per tutti è Hoffmann e la «duplicazione cronica» dei suoi personaggi e delle loro vicende, come la chiama Manganelli), Edgar Allan Poe scrive un racconto partendo da un occhio, uno solo.

Da genio elegante e diabolico qual è, singolarizza un organo che solitamente è considerato nella sua appartenenza a una coppia, («Aveva solo un occhio, e il pregiudizio popolare è in favore di due», dice Dickens) e ne fa il centro di un’ossessione.

Il racconto è Il cuore rivelatore.

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Morte e occhio sono legate, al punto che la vita sottratta all’occhio (gli occhi sono i primi organi a perdere la “vitalità” del corpo) si trasferisce nel battito del cuore, che nascosto sotto le aste del pavimento, rivela il delitto. Ma sono legate in un modo che non ha nulla a che vedere con la superstizione (il mal-occhio era infatti “uno”): questo è un legame molto più perturbante, perché unisce il quotidiano (nel caso del racconto, la normale e continua vista di un occhio di un vecchio in casa sua da parte di un presunto servo) e l’orrendo.

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Spaventoso, come insegna Henry James in Giro di vite, non è lo spettro in quanto apparizione del morto, ma il fantasma psicologico, l’ossessione, così come morboso non è il mostro che viene da fuori, ma l’interno del corpo e la sua «melma», cose che lo studio della mente e l’apertura del corpo fanno vedere proprio in quel periodo storico.

Cosa ci fanno vedere di noi, oggi, i nostri occhi digitali?

Il terrificante come luogo letterario è ancora una corda tesa dall’Illuminismo e dall’Enciclopedia tra la l’ignoranza magica e la conoscenza spietata e chirurgica.

Ma c’è un altro punto nel quale la forza di questa omologia si posa, ed è – e come poteva non esserlo – La storia dell’occhio di Bataille, uscita due anni dopo il racconto di Nabokov.

Vortice di delitto e voluttà, piacere snervante e scivolamenti dolcissimi, sbrigativi accoppiamenti negli armadi e bagni immondi nei sughi corporei, il romanzo si conclude nel modo più osceno – socialmente, politicamente osceno – che si possa mai immaginare. Nessuna immaginazione, anzi, era mai arrivata a tanto prima di quella di Bataille.

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I due amanti chiedono a un prete di strapparsi l’occhio, e quello, con una forbicina, lo fa, tagliando i nervi. L’organo che era reliquia dei santi tra le più nobili, perché metonimia della vita e del fulgore dell’universo che vi si rispecchia, è ridotto a sex toy di carne, da far scivolare e da guardare, e che forse, come nelle allegorie del bizzarro rinascimentale, vede.

Non raggiunto da nessun racconto attuale in ambito letterario, questo è il racconto nel quale le sfumature del sadismo e del voyeurismo si fanno infinite e quindi non più numerabili: sono il frutto di una bruciatura di quell’artificio col nostro stesso desiderio.

Per Bataille, come per Poe e per Nabokov, l’esperienza più terrificante è quella interiore, e se è vero che l’occhio sale portandosi via l’inconscio come una mongolfiera e vedendo tutto, oggi nessuno lo vede.

Il sadomasochismo letterario da edicola e l’«impotenza dell’onnipotenza» di un occhio che può vedere tutto ma non racconta niente sono insufficienti di fronte alla ferocia candida di questi tre occhi. Forse solo i videogame realizzano una narrazione vagamente equiparabile a queste apoteosi.

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Daniela Ranieri

Daniela Ranieri vive a  Roma, anche se si domanda perché ciò dovrebbe avere importanza in questa sede. Ha fatto reportage e documentari per la tv. Ha fatto anche la content manager, per dire. Vende una Olivetti del '79, quasi  nuova. Crede che prendere la carnitina senza allenarsi faccia bene uguale. Ha pubblicato il pamphlet satirico "Aristodem. Discorso sui nuovi radical chic" e il romanzo "Tutto cospira a tacere di noi" (entrambi Ponte alle Grazie) 

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