Pirandello e quelle maschere ancora contemporanee
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Pirandello e quelle maschere ancora contemporanee

Nel giorno del suo compleanno una riflessione sull'uomo che più di tutti ha contribuito al pensiero teatrale di oggi

E' stato amore a prima vista. L'incontro con Luigi Pirandello e con il suo pensiero ha rappresentato per me l'attimo esatto in cui il teatro è entrato nella mia vita. Tutto da qualche parte inizia, e la mia più grande passione è partita proprio da lì.

E così a 145 anni dalla sua nascita è un piacere rispolverare quei libri letti, studiati, annusati ed amati nelle varie fasi della mia esistenza. Al liceo in primis, e poi all'università, ai corsi di recitazione e, da spettatrice, in sala. La fascinazione intorno alla quale è girato in mio pensiero è stata quella per la maschera. Nuda. Un tema trasversale alla sua produzione, ma che nel teatro trova la sintesi e, forse, la chiave di volta. Scrive Pirandello in una lettera del 1887

Oh,   il teatro drammatico! Io lo conquisterò. Io non posso penetrarvi senza   provare una viva emozione, senza provare una sensazione strana, un   eccitamento del sangue per tutte le vene. Quell'aria pesante chi vi si   respira, m'ubriaca: e sempre a metà della rappresentazione io mi sento   preso dalla febbre, e brucio. È la vecchia passione chi mi vi trascina, e   non vi entro mai solo, ma sempre accompagnato dai fantasmi della mia   mente, persone che si agitano in un centro d'azione, non ancora fermato,   uomini e donne da dramma e da commedia, viventi nel mio cervello, e  che  vorrebbero d'un subito saltare sul palcoscenico. Spesso mi accade  di  non vedere e di non ascoltare quello che veramente si rappresenta,  ma di  vedere e ascoltare le scene che sono nella mia mente: è una  strana  allucinazione che svanisce ad ogni scoppio di applausi, e che  potrebbe  farmi ammattire dietro uno scoppio di fischi!

Per Pirandello il teatro è il luogo della verità. L'unico spazio che permette il compimento di quello che può considerarsi il miracolo del relativismo della sua poetica. Grazie alle maschere vestite in scena ci si può, infatti, permettere il lusso di essere 'veri' facendo cadere le maschere della vita. Per Pirandello le maschere sono i ruoli sociali, le convenzioni, le strutture, perfino il 'nome' che è la prima e più pesante delle forme che l'uomo calza. La consapevolezza di vivere in una grande macchina di bugie può provocare tre diverse reazioni. Quella passiva, la più diffusa. E' quella di coloro che accettano la forma tanto da finire per credere di essere quella cosa lì (come nel caso de Il fu Mattia Pascal). Quella drammatica, (Enrico IV). Il personaggio coglie l'ontologica distanza tra quello che crede di essere e quello che la società gli dice di essere e impazzisce. Quella umoristica. La forma imposta è una scatola dalla quella uscire per poi rientrare sfruttando le pareti e giocando con le maschere. Strumento per farlo, la follia. Esemplare la patente, la novella nella quale un presunto iettatore rivendica la patente da menagramo per sfruttare al meglio quello che gli altri dicono di lui.

Pensare a Pirandello oggi ed immaginarlo con in mano un ipad o uno smart phone non è difficile. Il suo essere contemporaneo è talmente evidente da rendere strano vederlo calcare le strade di un secolo e mezzo fa.

Pirandello iniziò a scrivere testi drammaturgici in dialetto siciliano perchè solo quella lingua aspra della sua terra gli permetteva di ambire al senso di verità a lungo cercato (e mai raggiunto). Su tutta l'immensa produzione drammaturgica lo spettacolo del cuore è senz'altro sei personaggi in cerca d'autore (il primo della trilogia del 'teatro nel teatro' composta anche da stasera si recita a soggetto e ciascuno a modo suo). E' il 1921. Tutto si rompe. l'impianto scenico, quello drammaturgico, quello che guidava la convenzionale spartizione spazio temporale tra pubblico e attori. Gli spettatori (era l'inizo del secolo scorso) entrano in sala e trovano le quinte aperte. La finzione del teatro viene violata e 'spiattellata in faccia' (come avrebbe detto Montale) ad un pubblico impreparato che reagisce urlando "manicomio! manicomio!".

Ecco allora che compaiono i 6 personaggi. Non hanno un nome, ma solo un ruolo (il padre, la madre, la figliastra...). Si presentano al capocomico e gli spiegano di essere tutti alla disperata ricerca di una parte, di un contenitore per le loro maschere, di un autore, appunto. E qui il paradosso si moltiplica perchè la storia dei 'personaggi' piace al direttore che però sceglie di farla interpretare ad attori veri amplificando il caleidoscopio del paradosso tra finzione e verità. La frizione con la commedia borghese del tempo è evidente e lo spettacolo è un flop amaro: le coscienze non sono pronte e ci vorranno alcuni anni (e una prefazione del 1925) per spiegare il significato di quello che stava avvenendo in scena.

La verità ultima del pensiero di Pirandello è, comunque, quella sintetizzata della novella della carriola. L'uomo tutto sommato trova sempre un compromesso tra ruoli, forme, maschere e frammentazione dell'io..la vita ci porta a vestire forme che ci calzano in maniera più o meno adeguata e si vivacchia senza farsi troppo male. E' la follia quella che ci salva e che ci va vedere la 'breccia nel muro' (ancora Montale). E' il borghese (protagonista della novella) che nella sua stanzetta per un attimo smette di vedersi vivere e vive davvero. Gli accade ogni sera, intorno alle otto, quando passa il treno. E' il momento in cui fa fare la carriola alla sua cagnolina. In quei cinque minuti, solo quelli, per un attimo, l'uomo si sente libero.

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Barbara Massaro