Il ritorno della Generazione X
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Il ritorno della Generazione X

Perdenti compiaciuti, soddisfatti di essere insoddisfatti. Ventenni nati sulle macerie

Douglas Coupland ha compiuto cinquant’anni, trascinando nella mezza età il suo libro più famoso, Generazione X. Un romanzo cult che ha dato un’anima ai nati nel ventennio 1961-1981, la generazione più ignorata del Novecento, schiacciata tra il sogno americano e l’incubo delle Torri gemelle.

"Losers", perdenti compiaciuti, soddisfatti di essere insoddisfatti, ambigui e contraddittori, in bilico fra autodistruzione e affermazione di sé. Il primo a capire quello che stava succedendo all’inizio degli anni Novanta fu proprio lui, lo scrittore canadese. Oggi, allo scoccare del suo mezzo secolo, l’editore Abacus ripubblica la bibbia di una generazione (224 pagine, 7,99 sterline) chiedendo a Coupland di fare i conti con il tempo che è passato. Una nuova introduzione nella quale l’autore confessa di non avere intuito la portata della sua stessa operazione.

Nel 1991 credeva che lo avrebbero capito solo i suoi quattro amici, che sapevano dare un senso a quel racconto con i fumetti a margine, come quadri di Roy Lichtenstein, e parole usate dai ventenni che vivono nel nulla di Palm Springs. "Vite piccole e di periferia", ai margini, gente che ha deciso di non partecipare alla gara, che cerca deliberatamente di nascondersi, rintanata in qualche lavoretto. I Mcjob, li chiama Coupland: "Impiego e paga irrisoria, basso prestigio, bassa dignità, bassa realizzazione e senza futuro, in genere nel settore dei servizi. Considerato una scelta professionale soddisfacente da persone che non ne hanno avute mai".

La X, racconta l’autore, fu una trovata dell’editore, e ancora oggi si chiede cosa ne sarebbe stato del romanzo senza quell’idea geniale, che perfettamente contraddistingue un livello basso di autoconsiderazione. Niente a che fare con i loro predecessori, i "boomers", i figli del baby boom, che avevano avuto la fetta migliore della torta, quelli del sogno americano, da Bill Clinton fino a Forrest Gump. "Tutto ciò che non abbiamo avuto noi e tutto ciò che non vogliamo essere noi" continua l’autore. Se i primi amavano i Beatles, a questi piacciono i Joy Division e il suo leader, bello e suicida, Ian Curtis. E naturalmente Kurt Cobain, il fondatore dei Nirvana, suicida anche lui e profeta del grunge.

Nel 1991 Coupland era già un trentenne e si preoccupava soprattutto della bolletta del telefono. Prima di internet, prima delle email. Gli anni Ottanta erano finiti e nulla di meglio sembrava poter arrivare. L’Urss si era dissolta e in Kuwait c’era la guerra del Golfo. Il politologo Francis Fukuyama aveva appena scritto La fine della storia (Rizzoli, 430 pagine, 8,50 euro). La vita era stagnante, osserva Coupland. Loro erano gli "slackers", ossia i nullafacenti, come li racconta il film icona di Richard Linklater: poca azione e interminabili discussioni. Eppure quegli anni produssero grandi talenti. Nel cinema: Quentin Tarantino, Steven Soderbergh, fino a Wes Anderson, che con I Tenenbaum mise in scena la dissacrazione della famiglia. Nella letteratura, i più grandi contemporanei: David Foster Wallace (un altro suicida), Jonathan Lethem, Bret Easton Ellis, in assoluto quello che ha saputo descrivere meglio nel suo Meno di zero (Einaudi, 186 pagine, 10 euro) la lost generation, la generazione perduta. Una gioventù malinconica e autoreferenziale, smarrita fra droghe e la paura di innamorarsi. "Siamo troppo privi di opinioni per esprimere preoccupazione e ci mostriamo studiatamente enigmatici e indecisi" dichiarò Easton Ellis.

Malati di doriangrayismo, ossessionati dall’idea di invecchiare, sono i primi ad avere superato il complesso di Edipo per approdare a quello di Narciso, come spiega il critico letterario Emanuele Trevi. Disillusi, cinici, indifferenti; così lo scrittore Aldo Nove ricorda i giovani di quei primi anni Novanta in Italia, quando da noi iniziò la stagione dei Cannibali, la corrente letteraria di cui lui stesso fece parte: "Quegli anni sono stati avanguardia e incantesimo. Tutto all’apparenza sembrava andare bene, ma si cominciavano a intravedere le prime crepe. Mancava l’idea di un progetto, di un futuro. Una condizione che poi è deflagrata". Ma, rispetto ai ventenni di oggi, ancora c’era compiacimento e la convinzione di portare a termine vite che in fondo erano degne di  essere vissute.

Figli di un pensiero minore. Ossia, come scrive Coupland, "la corrente filosofica secondo cui la riconciliazione con se stessi si ottiene riducendo al minimo le aspettative di ricchezza materiale: ormai non mi interessa più avere successo". Ai tempi della gioventù cannibale "c’era l’idea di un’incipiente disgregazione, oggi è già tutto disgregato" continua Nove. "Però non riesco a pensare a noi come a dei perdenti. Piuttosto solo sfortunati, nati in una congiuntura storica sbagliata".

Oggi i ventenni si definiscono la generazione nata sulle macerie, sono quelli che hanno guardato le repliche a Natale di Mamma ho perso l’aereo, che hanno amato Britney Spears e Paris Hilton, piccole Barbie star. I primi a non vergognarsi di mischiare i cartoni animati giapponesi con Virginia Woolf e che non vogliono distinguere tra alto e basso, come se l’apatia per un futuro che non arriva coprisse tutto. Supernova li chiama la rivista letteraria Nuovi argomenti: sono le ultime stelle prima del buco nero che inghiottirà una civiltà in crisi.

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