L’emicrania del reale ≈ l’avvenire dell’oblio. Le foto di Kubrick
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L’emicrania del reale ≈ l’avvenire dell’oblio. Le foto di Kubrick

Come di arte, io non capisco niente di fotografia; posso dire «mi piace» o «non mi piace», spingendomi a volte verso gli ardimentosi lidi dell’«interessante». In genere, delle foto guardo il contenuto, il soggetto ritratto, e non sono in …Leggi tutto

Come di arte, io non capisco niente di fotografia; posso dire «mi piace» o «non mi piace», spingendomi a volte verso gli ardimentosi lidi dell’«interessante». In genere, delle foto guardo il contenuto, il soggetto ritratto, e non sono in grado di cogliere quelle linee invisibili che convergono nel famoso punctum; meno che mai so riconoscere gli effetti delle tecniche utilizzate e parlarne.

Forte di questa mia ennesima debolezza, sono andata a vedere le foto fatte da Stanley Kubrick tra il 1945 e il ’50, nella mostra allestita al Chiostro del Bramante.

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Posso assicurare che non avevo mai visto nulla del genere. Nel senso che ogni foto sfugge al commento di bella o brutta e persino di interessante. Pur essendo opere autonome, sembrano lanciate verso un avvenire, anzi un destino, di movimento. Leggo ora che Barthes scriveva

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Ecco, per le foto di Kubrick vale l’esatto contrario. Anche senza essere condizionati dalla sua opera come regista, è impossibile non notare che queste foto esondano talmente il loro confine che superano il (mio) problema principale con le foto, e cioè il fatto di non descrivere una storia.

Lo so che c’è chi pensa che le foto siano storie (di solito sono gli stessi che dicono che la radio è molto più piena di immagini della televisione), ma non è vero: le foto sono pagine di storie possibili, a volte sono singole parole, e tutto intorno al vuoto che le circonda si distende il campo vertiginoso dell’immaginazione, dal vero al verosimile. Le foto mi sembrano piuttosto istanti certi dell’incertezza cosmica, occhi del ciclone generale, punti dell’infinito parallelo, e se non mi sono fatta capire è colpa loro, della loro minuta puntualità.

Col cinema sono più a mio agio perché ci sono le storie (e quando non ci sono, liquido il film dicendo che non è cinema, tipo con David Lynch, che bravo, per carità, però).

Un accompagnatore del mio accompagnatore, uno che se intende, mi fa, furbo (nel senso buono, eh):

«E certo che sono belle: è Kubrick». Come se fosse tutta questione di saper tener ferma la macchina.

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Siccome lui lì era l’esperto, io non ho replicato niente (anzi mi pare pure di aver fatto un significativo cenno con la mano, come a dire «Eh, avoja, ma che non lo sai»).

Potendo ora abusare di questo spazio, dico: no. Fare foto e metterle in movimento è solo la scocca della tecnica cinematografica. Il cinema, per me, è nella relazione impalpabile tra le parti, nella tensione tra le immagini e nell’abbraccio, che può essere più o meno perturbante e vischioso, tra i frammenti. Cinema è montaggio, non come somma, ma come metodo e forza.

Il furbo nel senso buono direbbe: «Sì, ma se non fai belle immagini i film ti vengono di schifo. Devi saper fotografare, prima, e poi devi montare» eccetera.

Aridaje, dico: i film di Kubrick sono tutti relazione, sono tutti, interamente, campi di forze che fluttuano davanti agli occhi. Le sue scene non sono assemblaggi di immagini autonome, ma sono senso, gravità, sprigionati dal montaggio stesso.

È noto che all’idea di Kubrick di fare un film seguiva uno stato ossessivo, fatto di letture di centinaia di testi sul tema e incontri nei bar di NY con personalità ad esso legate, che poi sfociava nella scrittura della sceneggiatura.

Come è conciliabile la rapidità dello scatto, condizione della fotografia, col controllo ossessivo, e ricorsivo, della perfezione ragionata di cui lui era l’irraggiunto profeta? Come fanno queste scene ricavate da Kubrick dal continuum temporale a sprigionare la stessa forza accelerata delle sue inquadrature più provate e ripetute, limate allo spasimo?

Nella sua biografia più bella, quella di Vincent LoBrutto, c’è il racconto di come è stata fatta questa scena di Barry Lyndon. Il racconto dura tre pagine.

Avendola letta, ho detto al mio interlocutore: è come se la perfezione si aggrappasse al suo sguardo come fanno le pulci coi peli del cane.

Lui ha chiesto «cioè?», io gli ho risposto con un po’ di numeri per far sapere che ne sapevo.

Come l’obiettivo 50mm fotografico, cioè con lenti con 50mm di focale – costruite per la Nasa – con cui è riuscito a girare le scene in interni di Barry Lyndon a lume di candela per cogliere la “patina” degli ambienti originali, i suoi occhi sembrano accostare la realtà alla distanza infinitesimale che non la altera ma la perfeziona.

«Sì», ha detto lui «aveva l’occhio».

Intendo prendere questa frase nel suo senso buono, cioè in quello patologico. Anche l’iniziazione alla fotografia di Kubrick fu ossessiva, un vero allenamento tortile dell’occhio. LoBrutto insiste molto sul carattere quasi traumatico (per una psichiatria classica lo sarebbe) dell’apprendistato di questo inquietante ragazzino del Bronx espulso da scuola, da quando andava a bussare ogni cinque minuti alla porta del suo amichetto Marvin – che in casa aveva una camera oscura – turbando i parenti per il suo sguardo indagatore, allo scatto che a diciassette anni gli fruttò 25 dollari dalla rivistaLook magazine.

Lo zoom, di cui apprende la tecnica allora, nel suo caso è uno strumento estetico di risignificazione, o di mascheramento, della realtà in cui il rigore e l’arbitrio formano un misto quasi patologico. L’immagine di Kubrick è sempre pornografica, perché svela parti di realtà al puro piacere estetico. Ho una prova a sostegno di questa tesi.

Nel ’63 Kubrick e Therry Southern lavorano insieme alla sceneggiatura della «commedia da incubo» Il dottor Stranamore.

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A film uscito, il produttore di un altro film di Southern decise di lanciarlo sfruttando la popolarità del primo, indicando in Southern «lo sceneggiatore del dottor Stranamore». Kubrick dichiarò ufficialmente che la sceneggiatura era sua (di Kubrick), e che Southern aveva al massimo «visitato il set ma mai in veste professionale».

Sette anni dopo, Southern pubblica Blue Movie, uno dei romanzi più esilaranti del mondo.

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Parla di un regista ossessivo, pieno di e idiosincrasie e dall’irresistibile, polimorfico genio, che vuole fare il «porno d’autore». L’idea di fare un «dramma psicologico» con al centro la coppia, la gelosia e il sesso tratto da un’opera di Schnitzler girava in testa a Kubrick già dal ’73, ai tempi della lavorazione di Barry Lyndon, anche se prenderà corpo solo vent’anni dopo. Ma nei tratti, negli occhi e nella follia fredda e visionaria del regista Boris Adrian non è difficile riconoscere chi si nasconde.

Secondo lui, i film porno che avevano appena visto, senza volerlo, toccavano nodi estetici cruciali nel cinema contemporaneo più di quanto non facessero quelli dei grandi registi, lui compreso. Era ben consapevole che per libertà d’espressione, sperimentalismo, il cinema era sempre rimasto indietro rispetto alla letteratura e, negli ultimi, persino rispetto al teatro. Erotismo realistico ed esteticamente pregevole abbondava in ogni manifestazione della prosa contemporanea – perché niente di simile era mai stato ottenuto, e neppure seriamente tentato, in un film? Era qualcosa di troppo intimo per essere condiviso con una platea di spettatori? Probabilmente bisognava tentare un approccio diverso.

Kubrick preferì sempre ricavare le sceneggiature dai classici (come Thackeray per Barry Lyndon) o dai contemporanei (come Stephen King per Shining, Arthur C. Clarke per 2001: odissea nello spazio e Anthony Burgess per Arancia meccanica) e per Il dottor Stranamore e Full metal jacket, “liberamente tratti” da romanzi esistenti, si fece portare tonnellate di documenti, dischi e foto che studiava per settimane, chiuso nella sua casa di Londra.

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Questo perché il suo genio operava a un livello di creatività che è più simile alla perfezione progressiva dell’evoluzione, e alla ricerca dell’utilizzo migliore di tecnica e invenzione, che non al creazionismo. Kubrick è l’iniziatore di un modo di fare film in cui lo splendore appartiene al mondo delle quantità, dell’ottimo e dell’evoluto più che alla qualità come espressione della soggettività creativa. La freddezza e il rigore si infiammano grazie a una specie di aura, anzi di emicrania sarcastica che gravita attorno alle immagini.

La frase di Kubrick rivelatrice della sua capacità di scovare la natura profondamente patologica dentro il rigore più disciplinato è questa, riportata da LoBrutto:

C’è qualcosa di intrinsecamente sbagliato nella personalità umana. C’è un lato maligno. (…) L’oblio potrebbe non essere la fine. 

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Per questo per me David Lynch e Stanley Kubrick sono l’uno il contrario dell’altro, come Goya è il contrario di Piero della Francesca: per l’uno lo stampo creativo, derivando direttamente dall’incubo e dal privato dell’immaginazione, è di quelli che vengono usati una sola volta, scavati dal nulla e esposti al gusto degli altri; per l’altro vale la geometria tirannica e precisa di un processo di studio e perfezionamento della spaventosa realtà, che nella potenza rivela la sua giustizia arbitraria e indimostrabile che vale per tutti e per sempre.

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Daniela Ranieri

Daniela Ranieri vive a  Roma, anche se si domanda perché ciò dovrebbe avere importanza in questa sede. Ha fatto reportage e documentari per la tv. Ha fatto anche la content manager, per dire. Vende una Olivetti del '79, quasi  nuova. Crede che prendere la carnitina senza allenarsi faccia bene uguale. Ha pubblicato il pamphlet satirico "Aristodem. Discorso sui nuovi radical chic" e il romanzo "Tutto cospira a tacere di noi" (entrambi Ponte alle Grazie) 

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