Bevilacqua, l’affabulatore che amava le donne
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Bevilacqua, l’affabulatore che amava le donne

Ha indagato indagato le passioni umane. Prima fra tutte il sesso

Che straordinario affabulatore era, nella vita, Alberto Bevilacqua. Ti catturava con le sue vanvere padane e con le sue vicende di regista a Cinecittà; lo potevi ascoltare per ore pendendo dalle sue labbra mentre, senza smettere di masticare l’immancabile sigaro, ti raccontava di quella volta con Romy Schneider, oppure della sera in cui Charlie Chaplin si esibì solo per sua madre, o di quella certa passeggiata fatta con Jorge Luis Borges lungo gli argini del Po. Chiunque altro l’avresti considerato un bugiardo: spesso i raffronti di date e luoghi non coincidevano, eppure sentivi che l’autore de La Califfae di La polvere sull’erba diceva, a suo modo, la verità. E questo modo era quello d’un narratore puro che, per istinto e deliberata poetica, sapeva che la cosiddetta realtà può essere compresa e interpretata solo attraverso la costruzione di storie.

Nato a Parma il 27 giugno 1934, scomparso il 9 settembre scorso, Bevilacqua era figlio d’un fascista della buona borghesia e d’una popolana d’Oltretorrente: due figure che, mitizzate, ritorneranno ciclicamente nella sua opera, poli magnetici di un talento multiforme che si sarebbe espresso anche nel giornalismo e nel cinema.

Dopo i precoci esordi poetici sotto l’ala del «genius loci» Attilio Bertolucci, lo scrittore parmigiano si trasferì a Roma e s’affermò ben presto come narratore di successo, raggiungendo la notorietà internazionale nel 1964 con La Califfa, di cui girò poi la versione cinematografica, protagonista la conturbante Romy Schneider. Vennero i premi: il Campiello nel 1966 con Questa specie d’amore, lo Strega nel 1968 con L’occhio del gatto, forse il suo romanzo più «sperimentale», il Bancarella nel 1972 con Un viaggio misterioso. Vennero anche le invidie, come se il successo non fosse una variabile indipendente dal reale valore d’uno scrittore. Erano gli anni del Gruppo 63 e un narratore di colorito e melodrammatico realismo come Bevilacqua non poteva che essere inviso. Ma il suo era un «realismo magico», assai più in sintonia con quello degli emergenti scrittori sudamericani (Gabriel García Márquez in testa) che con i cascami del neorealismo nostrano. Non a caso la parola «mistero» è cruciale nella sua poetica. E, fra tutti i misteri, quello del sesso. Perché Bevilacqua, perennemente curioso delle donne, è stato anche un grande indagatore della passione amorosa in tutte le sue sfaccettature, memore dell’ammaestramento materno: «L’eros si sente, il sesso si pratica».

Malato da tempo, Bevilacqua ha però fatto a tempo a godersi l’uscita, tre anni fa, del Meridiano Mondadori coi suoi romanzi più significativi, curato con passione da Alberto Bertoni. Bevilacqua era un uomo di grande generosità intellettuale. Molti scrittori più giovani, a volte loro malgrado, gli devono qualcosa. Forse non glielo abbiamo riconosciuto abbastanza e questo aggiunge un rammarico al dolore per la sua scomparsa. 

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Roberto Barbolini