Cristina D'Avena: "Perchè piaccio a tutti, anche ai punk tatuati..." - Intervista
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Cristina D'Avena: "Perchè piaccio a tutti, anche ai punk tatuati..." - Intervista

L'ultimo successo è un album di duetti con le star della musica italiana. Che, con lei, ricantano le immortali sigle dei cartoon

La sua incredibile storia si può riassumere in tre parole: tutti cantano Cristina. Tre parole che sono anche il sottotitolo dell'album di duetti (Duets) entrato al primo posto in classifica e già disco di platino a poche settimane dalla pubblicazione. "Ho alzato il telefono e ho chiesto a sedici colleghi se volevano cantare con me le sigle più note dei cartoni animati che ho interpretato dagli anni Ottanta ad oggi. Non solo hanno accettato, ma addirittura avevano delle preferenze. Ad Arisa, per esempio, avevo proposto Memole dolce Memole, ma ha insistito molto per Magica, magica Emi. L'ho accontentata. Kiss me Licia l'ho cantata invece con Baby K» racconta Cristina D'Avena, voce inconfondibile delle sigle di oltre settecento cartoons: un caso unico nella discografia mondiale.

Per Duets ha ricevuto solo adesioni entusiastiche da parte dei colleghi o c'è qualcuno che ha gentilmente declinato l'invito?
No, sono stata travolta dall'entusiasmo. Con Michele Bravi c'è stato un momento di imbarazzzo iniziale perché quando l'ho chiamato mi ha sbattuto il telefono in faccia dicendo «Sì, vabbè, e tu saresti Cristina D'Avena?». Dopo cinque minuti ha richiamato: “Scusa, non credevo fossi davvero tu. Mi dispiace, sei li mito della mia infanzia». Poi, mi ha chiesto di cantare insieme I Puffi sanno.

A proposito di scuse. Com'è andata veramente con i Gem Boy, la rock band bolognese autrice del tormentone Ammazza Cristina?
Non mi piace per niente quella canzone: nel testo dicono di volermi strappare le corde vocali per poi buttarmi in un pozzo perché, cito testualmente, ho rotto i maroni. Carini... Un giorno, ci siamo incontrati casualmente in autogrill e mi hanno chiesto scusa. Il mio primo pensiero è stato: ma guarda questi che adesso mi fanno pure le moine. Alla fine, contro ogni previsione logica, abbiamo iniziato a lavorare insieme. Le cover e le parodie dei brani famosi sono la loro specialità e lo spettacolo che da anni portiamo in giro per l'Italia fa numeri incredibili: abbiamo riempito per otto volte l'Alcatraz di Milano.

C'è un qualcosa della sua adolescenza, uno scheletro nell'armadio che contrasta con la sua immagine candida di fatina dei cartoni animati?
No, guardi, io le trasgressioni adolescenziali le ho proprio saltate. Ho iniziato a cantare sigle a 17 anni con il supporto di un padre medico, straordinario ma gelosissimo e preoccupato della mia incolumità. Quando non mi accompagnava personalmente agli appuntamenti di lavoro, delegava la scorta a un suo paziente, un carabiniere grande e grosso che mi seguiva senza mollarmi un attimo.

Non si è mai sentita intrappolata nel ruolo di cantante delle sigle? Non ha mai desiderato interpretare canzoni ”adulte” ?
Le sigle sono realmente la mia vita, non mi sono mai stufata di cantarle perché in fondo dentro di me si alternano la bimba e la donna. Io adoro totalmente quel che faccio, non ho mai cercato o pensato di interpretare un altro tipo di canzoni. Ho vissuto il mio lavoro come una missione, tanto che mi sono fatta travolgere, mettendo in secondo piano la mia vita.

A che cosa ha rinunciato?
Non ho fatto un figlio e, probabilmente, a questo punto non lo farò a meno di un miracolo del Signore. Non so se questa rinuncia mi farà vivere nel rimpianto, mi auguro proprio di no. Dagli anni Ottanta non ho mai ho mai smesso di cantare o di fare televisione. Prima o poi mi fermerò e prenderò in mano la mia vita, mi sono ripetuta mille volte, ma non è mai successo. E il tempo, si sa, scorre inesorabile anche se noi ci illudiamo che non sia così.

Che cosa la fa piangere?
Piango per rabbia e delusione quando mi feriscono nel profondo, ma naturalmente mi dispero anche per il dolore degli altri. Non dimenticherò mai il giorno in cui mi sono trovata in un reparto di oncologia davanti a un bambino di tre anni in coma per un tumore. La madre, nell'estremo tentativo di risvegliarlo, mi chiese di cantare la sua canzone preferita: Topo Gigio. Quella donna sperava nel miracolo: guardava me e poi fissava suo figlio implorando che desse un segno di vita, ma purtroppo non successe nulla. Lei piangeva a dirotto e io pure: è andata avanti così per un quarto d'ora. Terribile.

Tra i suoi fan più accesi ci sono molti insospettabili.
Vede, la mia musica unisce le generazioni, la ascoltano tutti, anche quelli che poi sono diventati trasgressivi. Una volta, durante un concerto, si è presentato un ragazzo letteralmente ricoperto di tatuaggi e piercing e con i capelli stile rasta. Era lì in prima fila con una caraffa di birra in mano e mi fissava serissimo. Quando è iniziata Memole dolce Memole si è sciolto in un pianto a dirotto. Alla fine dello spettacolo mi ha raggiunto in camerino per raccontarmi che quella canzone gliela cantava sua nonna. Anche i punk e i metallari sono stati bambini... Per la comunità gay sono un'icona senza tempo. Credo che dipenda dal fatto che le mie canzoni sanno regalare leggerezza, colore e libertà.

Si dice che viva ancora con sua mamma e sua sorella.
Certo, quando non sono in giro per concerti o incisioni torno nella mia Bologna con loro. Da quando è morto papà, mamma ha bisogno che qualcuno le stia vicino. A volte, me la porto ai concerti dove i miei fan se la coccolano tutta. Anche il mio fidanzato la adora. La mamma è la mamma e io non dimentico i sacrifici che ha fatto per me quando mi portava all'Antoniano di Bologna per partecipare allo Zecchino d'Oro. Non dimentico mai che tutto è iniziato lì con Il valzer del moscerino...


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Gianni Poglio