Brecht a Milano e l'eredità dell'Opera da tre soldi
Ufficio Stampa Piccolo Teatro di Milano.
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Brecht a Milano e l'eredità dell'Opera da tre soldi

Il Piccolo celebra gli anni storici del teatro di Strehler e il sodalizio con il grande tedesco con la pièce che gli aprì la strada in Italia

Bertolt Brecht a Milano: sessant'anni di Teatro al Piccolo. Come è difficile ricordare oggi i palpiti creativi, la passione estetica e ideologica e l’anelito europeo che portarono alla prima rappresentazione dell’Opera da tre Soldi nel 1956 a Milano. Ci si muoveva tra guerra fredda e denunce sociali, ideologia rossa e integralismo democristiano, boom economico e i primi fuochi della lotta di classe. 

Al grande drammaturgo tedesco il Piccolo ha dedicato un ciclo di incontri e conferenze in cui si parla, si racconta e si discute ma il cui obiettivo è portare il pubblico per mano sino alla prima del nuovo allestimento (in cartellone dal 19 aprile all’11 giugno) firmato da Damiano Michieletto, giovane (ha 40 anni) e acclamato regista d’opera veneziano appena premiato con l’Olivier Award per il dittico Cavalleria rusticana e Pagliacci andato in scena alla Royal Opera House di Londra. 

Michieletto da poco si confronta anche con il teatro, distinguendosi sempre per le letture originali. Siamo di fronte a un intellettuale che cerca emozioni, non paludato, che si prende con coraggio i suoi rischi andando a confrontarsi con un pezzo di storia dell’Italia, del suo teatro e della drammaturgia europea.  
L’Opera da tre soldi è ormai rappresentata in tutto il mondo.

Le musiche di Kurt Weill sono degli evergreen, siano esse eseguite in chiave jazz o orchestrale. Si ricordano le canzoni di Milva (che Strehler volle per il suo secondo allestimento agli inizi degli anni Settanta). Ci sono registi che ne hanno privilegiato l’aspetto ideologico-marxista e altri che ne hanno fatto un puro musical, ma la vera sfida è ancora quella, per dirla con l’intento di Paolo Grassi, fondatore del Piccolo, e Giorgio Strehler, di riuscire a fare passare il messaggio brechtiano di critica sociale, partito da una domanda-equazione: “I banditi sono dei borghesi e i borghesi dei banditi”?

La storia
La storia dell’opera da tre soldi fu ripresa da un’opera settecentesca di John Gay “The beggar’s opera”, una satira socio-politica dell’Inghilterra in cui si alternano momenti musicali e prosa. Gay aveva fatto della musica una parodia del melodramma italiano, Brecht  sceglie il cabaret e il jazz. Gay prendeva di mira l’aristocrazia. Brecht la borghesia, mettendo in scena un mondo di malavitosi e sottoproletari migliori dei borghesi stessi. Il bandito Mackie Messer, protagonista della storia, dice infatti: “Cosa vale sfondare una banca di fronte al fatto di fondare una banca?” E qui, sta la storia. 
Perché il messaggio moderno potesse essere accettato dal pubblico del 1928, il drammaturgo tedesco spostò l’ambientazione indietro di cento anni, in Epoca Vittoriana. Strehler invece, scelse per la sua riattualizzazione del 1956 l’America del 1914 e degli immigrati italiani. Quale è dunque oggi la scelta di Michieletto?

Il regista ha promesso una “lettura inaspettata ma autentica” e la sua Opera da tre soldi è ambientata nell’epoca attuale, ma senza riferimenti geografici o temporali netti. “Ho scelto di rappresentare l’opera come se la guardassi attraverso una lente di ingrandimento, partendo dalla fine. La scena si apre sul processo a Mackie Messer in una grande aula giudiziaria, dove i personaggi raccontano in flashback la loro esperienza, momenti all’interno dei quali il momento musicale diventa una cosa diversa” spiega il regista. Enfatizzando quell’effetto di straniamento che Brecht voleva. 

“La critica sociale della moderna Opera da tre soldi da particolare è diventata globale e borghesia e proletariato oggi sono diventati il nord e il sud del mondo. Siamo andati oltre le categorizzazioni e la critica sociale è quella verso il benessere del mondo occidentale, che compra abiti prodotti dagli “schiavi” sottopagati dei Paesi in via di sviluppo. Oggi c’è un nuovo proletariato che preme per entrare, quello delle valanghe di immigrati di cui noi non riusciamo a distinguere nemmeno il luogo di provenienza”. 

Anche Michieletto, come fece Brecht e come voleva Weill, ha scelto attori senza preoccuparsi come primo approccio che sapessero anche cantare. Ma il suo resta un appuntamento importante vuoi per la traduzione che va a toccare, vuoi per la messa inscena proprio al Piccolo, il tempio di Strehler, in occasione dell’anniversario dei 60 anni della venuta di Brecht a Milano.
Ecco alcuni aneddoti che spiegano perché.

Il vero debutto di Brecht in Italia
L’allestimento di Strehler andato in scena il 9 febbraio 1956 è considerato il vero debutto di Brecht in Italia e tra il Piccolo e il drammaturgo tedesco si stabilì un rapporto solido di stima, fiducia e di eredità spirituale. Ricordiamolo, il Piccolo nasce nel 1947 e da subito si propone e vuole essere il veicolo di un repertorio misto internazionale, anche di sperimentazione e di avanguardia. E vivrà con Brecht gli anni fondamentali della sua storia

Gli inizi
Nonostante il grande fermento culturale che circondava Brecht anche in Italia (pubblicato da Einaudi, Sonzogno e rappresentato un paio di volte) la gestazione dell’Opera da tre Soldi è stata lunga. Strehler e Grassi volevano debuttare con un’opera che aiutasse il pubblico a entrare in sintonia con Brecht e più volte dichiararono di aver capito che per rappresentarlo dovevano essere più bravi, più preparati, con più risorse. La prima richiesta di diritti inoltrata al Berliner Ensemble risale al 1951 per l’opera Madre Coraggio, poi nel 1953 si scelse l’Opera da tre Soldi per arrivare a rappresentarla soltanto tre anni più tardi.

Il viaggio a Berlino
Il 25 ottobre del 1955 Strehler incontra Brecht a Berlino ed è l’incontro tra un regista rampante di 35 anni e un uomo di successo di 57, autore, regista e direttore del Berliner Ensemble. Sono entrambi però uomini di teatro, pragmatici e pronti a stimarsi e a capirsi. E così avverrà: tra i due nasce una stima fortissima confrontandosi sul come mettere in scena il “teatro epico”, allora sconosciuto agli attori italiani e basato sulla dialettica e sulla coralità dei personaggi. I due converranno su una riattualizzazione, ambientando l’Opera da tre soldi tra gli italiani d’America del 1914, prima del grande crollo della Borsa. E trovando nella “vis comica” il modo di far passare un messaggio che “mai dovrà essere rappresentato in modo lezioso”. 

Brecht a Milano.
Nell’inverno del 1956, il Piccolo Teatro non è il solo a rappresentare Brecht in Europa, eppure l'autore sceglierà di venire proprio a Milano. Le cronache dell’epoca lo descrivono schivo, timido, vestito con una giacca grigia alla coreana. Si sottrae ai fotografi dicendo “Je ne suis pas un criminel” (non sono un criminale) e concede pochissimi incontri, tra cui uno a Salvatore Quasimodo. Nonostante le temperature polari Brecht a Milano mangerà soltanto gelato e spaghetti, sgattaiolando non visto  in teatro durante le prove e ridendo così fragorosamente alle battute che Tino Carraro chiederà a Strehler: ma chi è quello che ci disturba con le  risate?” “E’ Bertolt Brecht”.

Il successo della prima
Lo spettacolo di Strehler (con Tino Carraro e Milly) durava 4 ore e mezzo, ma fu un successo e chiuse il 25 febbraio con ancora una lunga lista di prenotazioni in attesa. Nella sua lettera privata alla moglie Brecht scrive: “Strehler si è confermato il miglior regista europeo. L’allestimento di Milano è aggressivo e artisticamente stupendo ed ha coinvolto il pubblico di questa città industriale sino alle 2 del mattino”. Brecht sceglierà anche di dire due parole al pubblico del sabato successivo, quello dei lavoratori, vincendo la sua naturale  ritrosia e arrivando a definire il teatro milanese “Il grande piccolo teatro”. Se ne tornerà poi a Berlino con un panettone e una lettera 22, la macchina da scrivere della Olivetti che è ormai uno dei simboli del boom creativo ed economico italiano degli anni cinquanta.  

L’eredità spirituale.
Tornato in Germania, Brecht scriverà un telegramma: “Caro Strehler, mi piacerebbe poterle affidare per l’Europa tutte le mie opere, una dopo l’altra”. Una frase di stima che molti hanno interpretato come una cessione di diritti in esclusiva. Ma non fu così. Ne scrive a proposito Paolo Grassi, fondatore del Piccolo insieme con Aldo Valcarenghi, Mario Apollonio,  Virgilio Tosi e Nina VInchi, definendo volgare qualsiasi insinuazione. 
“Brecht venne in Italia e letteralmente impazzi per l’Opera da tre soldi nella regia di Strehler che definì “la migliore di quella da lui stesso curata a Berlino” sono le parole di Grassi. "Brecht disse e scrisse che il Piccolo e Strehler dovevano essere il suo “Zentrum” per l’Italia e che noi avremmo dovuto gestire la drammaturgia e l’estetica di Brecht in sede nazionale”. Questo permise al Piccolo di stringere accordi a Berlino per versare alla società editrice il 6 per cento degli incassi e non le quote previste dalla società degli autori. Con notevole risparmio. 

La morte di Brecht
Bertolt Brecht morirà sei mesi dopo il suo viaggio a Milano e il Piccolo sentirà profondamente la responsabilità di non tradire la “delega morale” affidatagli dall’autore. Scrive ancora Grassi “Essere i suoi custodi di Brecht in Italia ci ha indotto, oltre a rappresentarlo il più e il meglio possibile, a combattere gli avventurismi artistico politici di molta gente si buttava su di lui perché stava diventando un cavallo vincente”.

La chiave è sempre stata quella di non far prevalere l’aspetto ideologico su quello artistico, estetico. Ma di fonderli. “Brecht non è come Shakespeare, che resiste a tutto”. “Essere o non essere” può essere recitato malissimo da un analfabeta o da un dilettante e sta in piedi. Brecht, se è fatto male, può essere controproducente, un boomerang”.

Il finale
Su richiesta di Strehler, Brecht acconsentì a riscrivere il finale dell’Opera da tre soldi, rendendolo più ottimistico inserendo una sorta di “chiamata all’azione”. Oggi invece Michieletto torna all’originale. Il finale è più cinico, ma la musica lo rende struggente. Il boom è ito. Il mondo è in transizione.

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Antonella Bersani

Amo la buona cucina, l’amore, il mirto, la danza, Milan Kundera, Pirandello e Calvino. Attendo un nuovo rinascimento italiano e intanto leggo, viaggio e scrivo: per Panorama, per Style e la Gazzetta dello Sport. Qui ho curato una rubrica dedicata al risparmio. E se si può scrivere sulla "rosea" senza sapere nulla di calcio a zona, tennis o Formula 1, allora – mi dico – tutto si può fare. Non è un caso allora se la mia rubrica su Panorama.it si ispira proprio al "voler fare", convinta che l’agire debba sempre venire prima del dire. Siamo in tanti in Italia a pensarla così: uomini, imprenditori, artisti e lavoratori. Al suo interno parlo di economia e imprese. Di storie pronte a ricordarci che, tra una pizza e un mandolino, un poeta un santo e un navigatore e i soliti luoghi comuni, restiamo comunque il secondo Paese manifatturiero d’Europa (Sì, ovvio, dietro alla Germania). Foto di Paolo Liaci

Scrivimi a: antbersani@alice.it

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