Alla Corte d’appello di Napoli finivano nella carta da riciclare sentenze e faldoni. Li «smaltiva» in questo modo una cancelliera che, dopo le riprese eseguite di nascosto dalla Guardia di finanza, ora è accusata di distruzione di documenti giudiziari. E assieme a lei, c’era un assistente molto apprezzato da qualche avvocato perché faceva risparmiare…
Cosa non si fa per non lavorare. In Corte d’appello a Napoli, per esempio, una cancelliera è finita sott’inchiesta per aver distrutto un centinaio di atti giudiziari che non aveva alcuna voglia di trattare. «Fatico troppo, non ce la faccio più. Adesso chiedo il trasferimento» si lamentava la donna coi colleghi mentre le telecamere installate dalla Finanza, nel suo ufficio, la sorvegliavano. E, in effetti, Maria Rosaria Orefice, nella cittadella giudiziaria, aveva una reputazione non proprio immacolata. Stando alle carte del procedimento, che Panorama ha potuto leggere, in tanti conoscevano il suo particolarissimo modo di «archiviare» le pratiche.
Un’addetta alle pulizie, finita nella rete delle intercettazioni, al telefono con un impiegato ha rivelato che Rosaria «sta buttando tanta roba, così all’improvviso si trovano i bidoni pieni». Poi ha ricordato la volta in cui un dipendente del tribunale le «portò un fascicoletto verde che doveva inserire (in un faldone, ndr) e lei davanti a lui lo buttò direttamente». Sicché il povero impiegato era andato «nel bidone a riprenderselo». L’operaia è, a sua insaputa, uno dei testimoni chiave dell’indagine. Tanto che viene filmata mentre, ormai sola nella stanza della Orefice, dopo l’orario di lavoro, recupera alcuni incartamenti dal contenitore stracolmo e, sfogliandoli, dice sconsolata tra sé e sé: «Questa butta proprio tutto…».
La cancelliera, a guardare le immagini allegate agli atti, era una stakanovista al contrario: lavorava il doppio pur di non lavorare. Gettava incartamenti vecchi e nuovi. Quelli appoggiati sulla scrivania e gli altri catalogati negli armadietti. Talvolta li leggeva prima di cestinarli. Talaltra, invece, andava «a fiducia» e, basandosi solo sul titolo, infilava tutto nello scatolone per la carta (almeno sulla differenziata, era coscienziosa). In un paio di occasioni è capitato pure a lei, sempre così «precisa» nella selezione, di recuperare dei fogli dall’immondizia perché, evidentemente, se n’era liberata troppo in fretta.
Una collega era a tal punto fiduciosa della funzionaria che, dopo averle lasciato un plico sul tavolo, aveva immortalato la scena scattando una fotografia col cellulare. La «prova», secondo il giudice, qualora fosse «improvvisamente» sparito. Poco male: in alcuni fotogrammi, secondo la Procura, si noterebbe la cancelliera mentre riempie il bidone nonostante una persona a pochi centimetri da lei. Dunque, nessun imbarazzo. Nessun problema di opportunità. Anzi. La sua sembra quasi una sfida al sistema. In un’intercettazione, la donna viene sorpresa mentre battibecca con un giudice della Corte d’appello che si lamenta – chissà come mai – della mancanza di alcune pagine da uno scartafaccio. Lei non solo lo rintuzza ribadendo che non manca proprio nulla, ma appena conclude la discussione fa cadere nel cestino un’altra cartellina. Quasi come gesto di punizione.
Tenendola d’occhio per almeno un mese, gli inquirenti hanno scoperto pure che la signora Orefice s’intascava le marche da bollo che gli avvocati le consegnavano per le copie degli atti, e le girava al figlio praticante avvocato. Al quale voleva assicurare l’ingresso nella scuola di specializzazione forense in cambio di un interessamento presso un giudice suo conoscente per favorire l’istanza di un avvocato, che avrebbe poi fatto da sponsor al rampollo. Millanteria? Chissà. Certo è sempre la cancelliera a rivelare a un’amica che tempo addietro aveva aiutato un aspirante avvocato a superare la prova d’esame, dopo sei bocciature, grazie all’intercessione di un amico in toga. Aggiungendo pure che il beneficiato si era sdebitato con un cesto di delicatessen e un buono da spendere in gioielleria. Tra gli incartamenti recuperati nell’immondizia dalle Fiamme gialle ci sono sentenze, richieste e autorizzazioni di liquidazione di fatture, decreti di intercettazione, note dell’avvocatura dello Stato, libretti di depositi giudiziari. E persino atti del procedimento sul boss della camorra, Raffaele Imperiale, da poco estradato in Italia da Dubai. Diventato famoso in tutto il mondo per aver comprato, al mercato nero, i due quadri di Vincent van Gogh rubati nel 2002 dal museo di Amsterdam.
E scavando scavando, non solo nella carta, i militari si sono imbattuti in un altro impiegato «modello», pure lui indagato: l’assistente giudiziario Gennaro De Maio. A cui avvocati spregiudicati allungavano una banconota («prendetevi un caffè») per non pagare i diritti di cancelleria e ottenere documenti senza titolo. Anche nel suo ufficio, i finanzieri hanno effettuato riprese inequivocabili. E hanno immortalato una scena degna di una candid camera: un legale, per risparmiare i soldi delle copie, fotografa gli atti originali e poi, dalla postazione di De Maio, si collega alla sua casella di posta elettronica «gmail» per autoinviarsi le immagini da stamparsi poi comodamente in ufficio. La giustizia fai-da-te è servita.