La crescita continua delle rotte (oltre 68 mila, ben al di sopra dei numeri pre-Covid). Al tempo stesso, l’aumento del costo dei biglietti e le disfunzioni negli scali, in particolare in Italia che sconta limiti strutturali e scelte sbagliate del passato. L’aviazione commerciale mostra forti prospettive di sviluppo, ma il nostro Paese rischia di non poterle sfruttare.
Che il settore dell’aviazione commerciale sarebbe tornato a crescere molto velocemente non era un segreto. La storia insegna che, sia dopo la Seconda guerra mondiale sia dopo l’11 settembre 2001, con dure crisi che lo avevano paralizzato, il trasporto aereo si è sempre ripreso con una marcia più di prima. Secondo Eurocontrol, l’ente gestore del traffico aereo in Europa, alcune aree del Vecchio continente, tra le quali l’Italia grazie al periodo estivo, hanno recuperato i volumi di traffico e, globalmente, vedono l’aviazione crescere al 12 per cento su base annua e al 18 per cento su base semestrale. Numeri che da noi sono però destinati a ridursi con la fine di questa stagione.
Guida l’aumento di rotte soprattutto l’area asiatico-pacifica seguita da quella nordamericana, poi Europa, Sudamerica e Africa. Nel 2019, in tutto il mondo le tratte attivate da compagnie appartenenti all’Associazione internazionale dei vettori (Iata) erano 55 mila, e seppure la pandemia nell’aprile 2020 le abbia ridotte del 90 per cento, attualmente è già stata superata la soglia delle 68 mila. Più lente a prepararsi alla ripresa, per ragioni di organizzazione e limitazioni ai viaggi imposte ai passeggeri nel periodo 2020-2022, sono state le società aeroportuali: realizzare nuovi terminal e infrastrutture facendo investimenti quando non si incassa liquidità è rischioso, così nel momento della ripresa abbiamo assistito a ritardi nella capacità di getione dei voli.
Ha fatto notizia nelle ultime settimane l’aumento dei prezzi dei biglietti con tanto di provvedimento del governo e contromossa delle associazioni dei vettori che hanno fatto appello all’Unione europea. Ma per comprendere che cosa accade oggi è necessario fare un passo indietro negli anni: mentre Bruxelles era molto attenta a dichiarare «aiuti di Stato» i soldi per l’allora compagnia Alitalia, nulla obiettò a proposito degli accordi di co-marketing che le nostre province e regioni stringevano con le «low cost». Funziona così: i vettori ricevono dalle istituzioni pubbliche locali importanti sussidi per fare base negli aeroporti da sviluppare; la loro presenza attira e porta passeggeri nonché lavoratori specializzati, quindi genera «indotto» restituendo al territorio molte più risorse di quelle impiegate dalle istituzioni pubbliche.
Per contro, le compagnie hanno potuto applicare prezzi contenuti perché i costi sono stati in parte coperti da quei contributi. In Italia si sono sottovalutate le conseguenze della sentenza della Corte di giustizia europea dell’aprile 1986, nota come «Nouvelles Frontières», che allineò il metodo di calcolo dei prezzi con quanto fissato dal Trattato di Roma in materia di concorrenza. E quando dal 1999 è stato possibile attivare rotte senza che il vettore si trovasse nella nazione di partenza o d’arrivo (la cosiddetta «Quinta libertà dell’aria)», ecco che sono nate le low cost. Che non stanno sparendo, ma attualmente non hanno più nuovi mercati dove fare co-marketing, né aeroplani sufficienti per soddisfare la domanda. Da qui le loro difficoltà.
Sul prezzo dei biglietti – aumentato quest’estate anche del 500 per cento su certe tratte – pesa tra l’altro la richiesta elevata di chi è tornato a viaggiare a fronte di una capacità d’offerta che cresce più lentamente; ci sono poi fenomeni di speculazione e il ritardo con cui le società di gestione e vettori possono disporre di nuovo personale (dopo i larghi prepensionamenti del 2020 occorre tempo per addestrare i nuovi assunti), e di aeroplani, quindi di posti vendibili. Sui costi incidono inoltre le situazioni geopolitiche: la guerra russo-ucraina causa a vettori come Finnair (Finlandia), l’allungamento del 40 per cento di alcune rotte per aggirare gli spazi aerei chiusi per il conflitto. Più lungo è l’itinerario, maggiore è il carburante consumato e il costo, e il vettore di Helsinki ha stretto un accordo con l’australiana Qantas per scambiarsi passeggeri ed equipaggi.
Il rinnovamento delle flotte risulta poi lento: i principali costruttori di aerei hanno bisogno di tempo per adeguare le produzioni alla domanda, così le consegne dei nuovi velivoli – meno inquinanti e con gestioni meno costose – dettano la disponibilità dell’offerta dei posti. E di conseguenza i prezzi nelle tariffe Un esempio è Ryanair, che dopo un maxi ordine di 300 Boeing 737-Max aveva annunciato di destinarne un buon numero in Italia su nuove rotte (dove vende oltre il 30 per cento dei biglietti) a partire dal 2024, ma a causa dei ritardi nelle consegne disporrà di quei jet tra il 2025 e il 2027. Analoghe difficoltà le incontra la compagnia Air France-Klm con Airbus. Per tale ragione un Paese a forte vocazione turistica come l’Italia dovrebbe organizzarsi per accogliere più voli, migliorando i sistemi aeroportuali laddove possono crescere. Ne è un esempio la Sicilia, con Comiso che meriterebbe una maggiore interazione con Catania (spesso limitata dalle eruzioni dell’Etna, come si è visto di recente) e con Palermo. Lo stesso potrebbe avvenire in Puglia con un sistema aeroportuale diffuso su Bari, Brindisi, Foggia e Grottaglie, e nel Centro Italia dove Perugia, L’Aquila, Ancona e Pescara potrebbero far rinascere il trasporto interregionale. Si discetta sovente di «continuità territoriale» ma non si pensa, oltre alla Sicilia e alla Sardegna, ad avere scali in grado di accogliere velivoli più piccoli (25-75 posti) come l’isola d’Elba, e che ne esistono di decentrati come Villanova d’Albenga. Inoltre, fa rabbia pensare che un’azienda con importante capitale pubblico come Leonardo possegga il 50 per cento di Atr, leader nella costruzione di velivoli turboelica per trasporto regionale, eppure che questi siano poco utilizzati nel Paese.
Si aggiunga che sulle questioni aeroportuali regioni e comuni spesso litigano, come avviene a Siena, Firenze, Elba, Parma, Bolzano, le cui piste potrebbero essere prolungate. E i vari piani nazionali degli aeroporti annunciati dal governo di Mario Monti in poi non hanno consentito lo sviluppo armonioso del settore, spesso prevedendo insensate chiusure definitive. Il futuro del comparto è quello delineato dagli studi di colossi dell’aviazione come Honeywell (motori per jet, strumentazione e servizi), Cae (simulatori) e i principali costruttori, concordi nell’affermare che da oggi al 2032 serviranno un milione e trecentomila nuovi professionisti, dei quali 284 mila piloti, 402 mila tecnici e 599 mila assistenti di volo. Si tratta di un calcolo basato sullo stato delle flotte esistenti nel mondo, interpolato con gli ordini già confermati di Airbus (F+D, ottomila velivoli), Boeing (Usa, 4.650), Embraer (Bra 1.650), Canadair (Canada, 420) e Comac/Avic (Cina, 2.880). L’aviazione commerciale oggi affronta una sfida inedita. Si sviluppano prototipi di aerei che, grazie a motori innovativi consentiranno di portare un numero maggiore di passeggeri emettendo meno inquinanti (l’aviazione si è data la scadenza del 2050 per azzerare la CO2, ma a oggi il miglioramento annuale è nell’ordine del 4 per cento a fronte di un aumento del numero dei velivoli del 12 per cento). Al tempo stesso, c’è la necessità formare le nuove generazioni di professionisti del settore e le infrastrutture necessarie all’aumento del traffico nei cieli. Riuscirà l’Italia a entrare in partita?