E’ in atto un ripensamento epocale del rapporto spazio individuo. Niente baci e abbracci, né strette di mano e chiacchierate con troppi interlocutori: ecco come le regole di comportamento imposte dal Covid-19 cambiano convivenza, lavoro, socialità e modo di comunicare tra popoli.
Il ministro dell’Interno Horst Seehofer, a marzo, ha rifiutato di stringere la mano alla cancelliera Angela Merkel in occasione di un incontro sull’immigrazione a Berlino. I tedeschi, si sa, sono rigorosi e poco creativi. Al contrario, il presidente della Tanzania John Magufuli, durante il benvenuto a palazzo al leader dell’opposizione Maalim Seif Sharif Hamad, ha ideato un saluto speciale, quello «dei piedi» per creare un contatto, però a distanza.
Il gesto eccentrico ha fatto il giro dei social, è stato prontamente rinominato «Wuhan shake», e si è imposto come uno dei benvenuti più divertenti al tempo del Covid-19. In Cina, poi, si è ritornati al «Bao Quan Li», il saluto classico delle arti marziali, pugno chiuso nella mano aperta con inchino. Nella cultura americana, invece, come sostituto della classica stretta di mano, c’è il contatto tra gomiti noto come «Elbow bump», già adottato nel 2006, ai tempi dell’influenza aviaria, lo stesso fatto dal ministro Luigi Di Maio e Silvia Romano.
Rituali nuovi per tempi inediti: dimentichiamoci, almeno per il momento, strette di mano, abbracci e due baci sulle guance, anzi tre come fanno francesi, svizzeri e russi e prepariamoci a un nuovo linguaggio non verbale, ovvero a una gestualità con un repertorio differente.
Intanto i sociologi stanno a guardare, con molta attenzione e vivace curiosità, preannunciando già che questo sarà il più grande esperimento sociologico di massa mai messo in atto. In fondo, sono giorni di grande sperimentazione nell’ambito della convivenza, della socialità, del lavoro: le traiettorie del nostro quotidiano non sono più le stesse, dobbiamo metterci in fila, rientrare a lavoro a scacchiera, prendere, preferibilmente, l’ascensore da soli, distanziarci perfino all’aperto. Mentre architetti, urbanisti e amministratori tentano di ridisegnare le mappe di città, edifici e uffici, escludendo gli open space, «desincronizzando» i tempi lavorativi, assottigliando i flussi dei pendolari.
Insomma, è in atto un ripensamento epocale del rapporto spazio individuo ma, attenzione, il percepito non è uguale per tutti: la distanza media tra gli individui nelle interazioni è frutto di complesse sedimentazioni culturali, quindi certe misure di sicurezza impattano in maniera diversa a seconda delle latitudini.
Ce lo insegna la prossemica, scienza della semiotica, nata negli anni Settanta in America, dalla mente dell’antropologo Edward Hall con lo scopo di migliorare la convivenza tra le persone, in una società a forte promiscuità etnica. E ce lo conferma la professoressa Laura Terragni. Raggiunta al telefono in Norvegia, dove insegna Sociologia all’Università di Oslo, Terragni ci racconta di una vignetta appena pubblicata su Aftenposten, il maggiore quotidiano del Paese, che così recita: «Il divieto di un metro di distanza è caduto, finalmente si ritorna ai cinque».
Una battuta, certo «ma che la dice lunga sulla diversa metrica del distanziamento. Basti pensare che in Norvegia uno dei sogni maggiori è quello di rifugiarsi in una hutte, una casetta nella foresta, senza elettricità e senz’acqua, per trascorrere del tempo in solitudine. Altro che la nostra casa di campagna, piena di amici. Però attenzione, non si tratta di freddezza dei popoli nordici, quanto di un concetto di privacy da preservare. Qui, si chiede il permesso di abbracciare e il contatto fisico rompe quell’idea di privacy».
Anche Luca Toccaceli, artefice di un seminario di Antropologia culturale all’Istituto europeo di design di Milano, sostiene che «la reazione al distanziamento sociale è molto diversa da cultura a cultura. Inizialmente, ho dovuto aiutare gli studenti stranieri a decriptare e a familiarizzare con lo stile comunicativo dei ragazzi italiani. Una pacca sulla spalla può essere letta diversamente da un cinese e da un brasiliano, così come il bacio sulle guance tra maschi. Credo però che l’attuale mancanza di contatto fisico rappresenti una fase transitoria abbastanza breve, perché le abitudini radicate e sedimentate culturalmente non si possono sovvertite di colpo. Cambierà però la comfort zone, cioè la cerchia di persone delle quali pensiamo di poterci fidare: non smetteremo di abbracciare amici e conoscenti ma avremo più difficoltà a stringere la mano agli sconosciuti. E avremo, purtroppo, più timore a seconda del luogo di provenienza dell’altro».
I tempi quindi ci chiedono un adattamento a nuovi schemi e ci impongono regole prossemiche che potrebbero diventare abitudini cristallizzate nell’uso.
Che cosa accadrà quindi? Che l’immenso bagaglio espressivo della mimica mediterranea sarà impoverito per sempre? «Può darsi. Durante i processi di adattamento c’è una fase di integrazione che prevede l’abbandono di vecchie abitudini a favore di nuove, più consone con i tempi» interviene Caterina Ambrosi Zaiontz, docente di Psicopatologia e Psicologia transculturale allo Ies Abroad di Milano. «Per esempio, con l’inibizione del labiale, per via delle mascherine, sarà più facile potenziare la grammatica degli occhi e, in generale, la mimica delle parti scoperte del volto. L’importante però è non generalizzare la lettura del gesto dell’altro, ma potenziare il canale verbale: solo la curiosità della conoscenza abbassa la paura dell’altro, che potrebbe essere uno dei pericoli dell’attuale distanziamento sociale. In questo momento parlare, fare domande e ricevere risposte è più terapeutico che toccarsi. E l’empatia è più efficace di rassicurazioni stereotipate».
