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Grande ricerca, piccoli salari

Grande ricerca, piccoli salari

Chi è impegnato nei laboratori italiani ha stipendi che a volte non raggiungono i 1.500 euro al mese. E mentre il Paese continua a non investire in queste competenze di alta formazione – così decantate con la pandemia – l’unica possibilità di miglioramento per tanti «cervelli» resta la fuga all’estero.


Usati per le photo opportunity davanti all’ospedale Spallanzani di Roma. Elogiati di fronte all’emergenza Covid-19, come per la sperimentazione del vaccino tutto italiano. Definiti un’eccellenza nazionale, come avvenuto a Francesca Colavita, la biologa che isolò a febbraio il coronavirus, proprio all’Istituto per le malattie infettive romano. La categoria dei ricercatori della sanità è chiamata spesso a «fare miracoli». Ma per loro, in questi mesi, non c’è stato alcun miracolo: ricevono un salario inadeguato, che talvolta non raggiunge i 1.500 euro mensili. Con una prospettiva che non prevede riconoscimenti professionali adeguati.

Si tratta di una comunità scientifica che, stando alle ultime rilevazioni, conta tremila professionisti. L’aspetto più sorprendente è lo stipendio: nonostante un’alta formazione, confermata dalle pubblicazioni, il confronto è impietoso rispetto ai colleghi che lavorano nei reparti e nelle corsie. C’è infatti una differenza di oltre mille euro al mese netti tra chi ha funzioni di ricerca in laboratorio e chi invece svolge il ruolo di clinico. Al lordo, nella migliore delle ipotesi, i ricercatori possono ambire a raggiungere i 30 mila euro. Invece chi beneficia di un contratto della dirigenza parte sopra i 50 mila. «Da oncologo ricercatore lavoro fianco a fianco con un collega clinico. Le competenze sono le stesse. Ma il trattamento economico è nettamente diverso, il mio è inferiore più di mille euro netti», dice un ricercatore a Panorama.

La ragione della disparità risiede nella tipologia di rapporto applicata (sempre per quelli più fortunati, che hanno potuto sottoscrivere un contratto a tempo determinato). «Parliamo di medici, biologi, farmacisti inquadrati con un contratto di comparto. Non sono collocati nell’area che spetterebbe loro, ossia il contratto della dirigenza. È comparato alle figure tecnico-sanitarie», spiega Alberto Spanò, responsabile nazionale del settore dirigenza sanitaria del sindacato medico Anaao Assomed. Un biologo ricercatore, dunque, non viene riconosciuto, da un punto di vista economico, come biologo. «Come se i ricercatori fossero poco importanti» aggiunge Spanò. «Nemmeno in questa fase pandemica hanno avuto una rivalutazione del ruolo, a differenza di altre professioni». La spesa per il bilancio pubblico sarebbe minima: il numero di ricercatori della sanità, tremila appunto, non è così imponente da richiedere investimenti ingenti.

Eppure la vulgata parla di stabilizzazione e miglioramento della condizione dei ricercatori, grazie alla cosiddetta «piramide della ricerca»: una riforma approvata quando Beatrice Lorenzin era alla guida del ministero della Salute. Il meccanismo (un nuovo modello contrattuale, a tempo determinato, per queste figure professionali) è stato messo a regime dall’attuale ministro Roberto Speranza. Ma il cambiamento è minimo. I ricercatori, dopo aver lavorato da decenni con contratti a progetto o borse di studio, ne stanno sottoscrivendo uno a tempo determinato di cinque anni, rinnovabile per un altro quinquennio. Dopo? Si vedrà. Anche per chi, alla fine di questo percorso, si troverà ad avere oltre 50 anni.

Sulla qualità dei profili professionali non c’è dubbio: lavorano nei centri d’eccellenza, gli Istituti di ricovero e cura a carattere scientifico (Irccs), che in totale sono 51 sul territorio italiano; 20 pubblici e 31 privati. A questi si sommano gli Izs, ossia gli Istituti zooprofilattici sperimentali. Nell’elenco degli Irccs pubblici ci sono l’Istituto per le Malattie Infettive Spallanzani di Roma, l’Istituto Nazionale Tumori Giovanni Pascale di Napoli, il Policlinico San Matteo di Pavia, il Policlinico San Martino di Genova, l’Istituto Ortopedico Rizzoli di Bologna. Il cuore della ricerca made in Italy, riconosciuta dal ministero della Salute.

Nel pieno della pandemia non c’è stato un cambio di rotta. Il raffronto è ingeneroso con i colleghi stranieri o nei confronti degli italiani che decidono di fare le valigie per realizzarsi al meglio altrove. «Sono rientrato qualche anno fa dall’estero e ora ho un contratto di cinque anni in un Irccs lombardo. Spero che ci sia la possibilità di avere più fondi e contratti premianti» racconta un ricercatore tornato nel nostro Paese con un contratto di 1.500 euro. In caso contrario? La risposta è scontata: «Considererò la possibilità di andarmene di nuovo».

Spanò è categorico: «In Italia c’è un trattamento punitivo, il peggiore in Europa. Ottimo per qualità, pessimo per remunerazione. Le nuove generazioni sono le più colpite, è ovvio che poi in tanti decidano di andare via». Per alcuni va anche peggio. Esistono scienziati estromessi dalla riforma della piramide per cavilli normativi. Vantano una lunga esperienza, anche di 10-15 anni: sono stati esclusi dalla stabilizzazione perché privi di un contratto nella data del 31 dicembre 2017. La loro retribuzione rischia di avvitarsi ancora di più verso il basso. «Siamo in forte ritardo sul Dpcm che deve regolare i concorsi delle assunzioni. Ci sono stati dei passi in avanti di recente. Ma lo stiamo aspettando da un anno» afferma Sandro Alloisio, responsabile nazionale Fp Cgil per il settore. Una mancanza esiziale. C’è poi il capitolo risorse destinato alla ricerca sanitaria. L’Associazione ricerca in sanità Italia (Arsi) denuncia la disattenzione: «Nel decreto Rilancio sono stati previsti aumenti nei finanziamenti solo per Cnr e Università, ma è soprattutto negli Irccs e Izs che si concentrano gli sforzi per sviluppare nuove terapie e cure indirizzate al miglioramento della salute pubblica».

Le richieste dell’Arsi sono due: «L’istituzione della figura del ricercatore a tempo indeterminato e l’aumento dei finanziamento per la ricerca sanitaria». Il ministro Speranza ha dato la disponibilità al confronto. Ma al momento è fermo al capitolo delle buone intenzioni. Una delle testimonianze raccolte da Panorama è significativa: «Ho vinto bandi competitivi, ho lavorato in diversi Istituti in Italia e all’estero. Ma il tipo di contratto che mi viene proposto non è allettante, soprattutto perché il salario da “piramidato”, 1.500 euro, e le prospettive non sono rapportate alle competenze acquisite». Con questo orizzonte c’è un’unica soluzione: andarsene.

Una dinamica tutt’altro che nuova. Basta leggere le notizie sulle nuove scoperte fatte all’estero: i nomi sono spesso di ricercatori italiani, che con le loro conoscenze danno lustro agli istituti stranieri. Del resto negli Stati Uniti sono valorizzati con uno stipendio anche quattro volte superiore. Peraltro, chi sceglie di restare corre addirittura il rischio di dover rinunciare alle proprie ambizioni: «Sono biologa e volevo esserlo da quando ho ricordo di me» dice una ex ricercatrice. Che racconta: «Ho conseguito il dottorato lavorando in un ospedale universitario e poi ho iniziato una lunga collaborazione in un laboratorio di un Irccs pubblico».

La conclusione che fa la biologa è la perfetta fotografia della situazione: «La ricerca si inizia per passione, ma è un lavoro, con cui si deve vivere degnamente. I contratti possibili a sette anni dal PhD corrispondevano alla borsa di dottorato ministeriale attualmente prevista (circa 15 mila euro annui, ndr), con prospettive di cambiamento e di entrare nella “piramide” piuttosto vaghe. Così ho cambiato strada e lavoro con tanto rammarico e la frustrazione per non essere riuscita ad aver ragione di questo sistema che obbliga al precariato e alla mancanza di futuro».

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