Un nuovo dispositivo artificiale composto da speciali nanoparticelle fotoattive, messo a punto da una start-up dell’IIt di Genova, consentirà presto a persone affette da gravi malattie agli occhi di tornare a vedere.
Ridare la vista a chi, colpito da una malattia grave degli occhi, anno dopo anno vede scomparire la luce. È con questo obiettivo che è nata Novavido S.r.l., start-up dell’Istituto Italiano di Tecnologia (Iit, a Genova), accelerata nell’incubatore G-Factor della Fondazione Golinelli. Il progetto cui stanno lavorando i loro ricercatori è mettere a punto una retina artificiale «liquida» che faccia recuperare, almeno in parte, la visione nei casi di retinite pigmentosa e degenerazione maculare.
Al timone della start-up è Giovanni Manfredi, ricercatore dell’Iit ed esperto in nanomateriali. Il suo team sta sviluppando i risultati di ricerca ottenuti insieme al Center for Nano Science and Technology di Milano (CNST-IIT), il Center for Synaptic Neuroscience and Technology (NSYN-IIT a Genova) e l’ospedale Sacro Cuore Don Calabria di Negrar, a Verona.
La medicina e la tecnologia fanno miracoli, ma rendere la vista a chi l’ha perduta è quasi sempre impossibile, perché?
Perché l’occhio è un organo estremamente complesso, dotato di una geometria affascinante. È davvero una meraviglia della natura. La vista funziona attraverso un meccanismo a cascata, che parte dall’occhio e arriva al cervello. Basta che uno solo di questi processi venga meno per spezzare la catena che ci permette di vedere.
Cosa ci «ruba» la vista, nella maggior parte dei casi?
Le cause sono tantissime. Alcune patologie, per esempio, portano alla degenerazione della retina e di particolari cellule, i fotorecettori, che hanno il compito di trasformare la luce in un segnale trasmesso dal nervo ottico al cervello per essere interpretato. È il caso della retinite pigmentosa, una rara malattia genetica, ed ereditaria, che colpisce circa due milioni di persone nel mondo e provoca la rottura e la morte delle cellule della retina. Prima si perde, gradualmente, la visione notturna e il campo visivo periferico, negli ultimi stadi può portare a cecità.
Nel tentativo di ripristinare la visione, quali sono gli ostacoli superabili e quelli invece insormontabili?
Mentre i malfunzionamenti del nervo ottico restano limiti impossibili, confidiamo con il nostro lavoro di sostituire la retina danneggiata con qualcosa di artificiale ma completamente biocompatibile.
Come funziona esattamente?
La retina liquida che stiamo testando è composta da una sospensione di nanoparticelle fotoattive fatte da politiofene: un polimero a base di carbonio, utilizzato per i pannelli fotovoltaici, capace di assorbire la luce e trasformarla in una piccola carica elettrica che può essere dispersa all’interno dell’acqua. Il dispositivo si presenta come un liquido colorato, e viene iniettato da un chirurgo nell’area retro-oculare, un intervento breve e poco traumatico. Le nanoparticelle coprono così tutta la retina e, una volta in posizione, riescono a ripristinare la stimolazione dei neuroni retinici che inviano le informazioni visive al cervello. I fotorecettori non vengono sanati, ma letteralmente sostituiti. La retina liquida non necessita di occhiali, telecamere o fonti di alimentazione e viene somministrata localmente come un farmaco.
Su chi l’avete testata finora?
Con esami in vitro ci siamo assicurati che il materiale fosse biocompatibile. Poi abbiamo sperimentato la retina liquida su modelli animali affetti da retinite pigmentosa. Test comportamentali hanno mostrato un recupero quasi totale della funzione visiva e il risultato è stato pubblicato su Nature Nanotechnology.
Quanti anni ci sono voluti per metterla a punto?
È una storia partita dieci anni fa, quando i ricercatori hanno avuto l’idea di utilizzare un polimero fotovoltaico ben noto – usato per produrre i pannelli solari – per stimolare le cellule. Guglielmo Lanzani, il direttore del CNST-IIT di Milano, ha cominciato a collaborare con il centro NSYN-IIT di Genova diretto da Fabio Benfenati: insieme hanno iniziato a stimolare i neuroni retinici. Il lampo di genio è stato nel pensare: se i fotorecettori della retina funzionano trasformando la luce in un segnale elettrico, perché non sostituire quelli danneggiati con celle fotovoltaiche?
Con la retina hi-tech cosa si riesce a vedere?
Negli animali c’è un recupero totale dell’acuità visiva. Abbiamo stimato che sull’uomo il dispositivo permetterebbe di recuperare il pieno campo visivo, con la possibilità di svolgere tutte le attività quotidiane, rendendo l’indipendenza ai pazienti.
Allora quando inizierete a sperimentarla sui malati?
Nei prossimi due anni avvieremo i test su volontari in stadio avanzato della malattia, che abbiano perso completamente la funzione visiva. Sarà possibile anche grazie a una cordata di investitori italiani: Alfasigma, Utopia SIS, Istituto David Chiossone e Club2021.
E i prossimi obiettivi?
Vogliamo estendere questo tipo di studi alla degenerazione maculare. Mentre la retinite pigmentosa è relativamente rara, la degenerazione maculare, che coinvolge la parte centrale della retina – detta macula- è legata all’età e colpisce una persona su cinque. Dal momento che abbiamo una popolazione mondiale sempre più anziana, trovare una soluzione per questa patologia è urgente. E per noi sarà un sfida magnifica.