- Quando arriverà il vaccino?
- La verità su test e tamponi
Davvero, come si sente annunciare a più riprese, il vaccino per il Covid-19 è «quasi disponibile»? Ecco, no. Anche accelerando
i tempi, tra i mesi della sperimentazione di fase tre (su decine di migliaia di volontari), possibili intoppi, approvazione, produzione di massa e distribuzione alla popolazione mondiale, l’antidoto contro la pandemia potremmo averlo tutti, ottimisticamente, fra un anno. Forse.
Lo aspettiamo per quest’autunno, anche se già sappiamo che ci saranno ritardi. Prima gli anziani e le categorie più esposte, poi via via gli altri, e neppure è certo se le dosi disponibili basteranno per tutti.
A scanso di equivoci, stiamo parlando del vaccino contro l’influenza perché l’altro, il Vaccino per eccellenza, su cui viaggiano le speranze planetarie di liberarsi una volta per tutte del Covid-19, ha una strada assai più accidentata di quello che pensiamo. O che ci dicono, come racconta l’articolo precedente. Nelle tante dichiarazioni, soprattutto di politici e Ceo di industrie farmaceutiche, regna un ottimismo pervicace: il vaccino è in arrivo, si sbilanciano, entro fine anno, come un formidabile regalo di Natale per l’umanità.
In questo galoppo scientifico, la notizia che il cavallo più veloce (il candidato di AstraZeneca) si era azzoppato ha frenato per un attimo l’entusiasmo, salvo poi apprendere con sollievo che i test sui 30.000 volontari sono ripartiti, almeno in Gran Bretagna. E che l’«evento avverso», un caso di mielite trasversa, non era legato alla sperimentazione. Le prime dosi, annuncia AstraZeneca, potrebbero essere pronte per l’Italia a novembre.
Ma, «stop and go» a parte, produrre un vaccino contro un virus che fino a otto mesi fa non esisteva (dal punto di vista clinico) è un’impresa di cui nessuno può garantire il risultato. Figuriamoci prevedere il momento in cui allungheremo il braccio per farci inoculare l’antidoto.
Sarà il 2021, allora, l’anno della «liberazione»? Intanto, dovrà andare a buon fine uno qualsiasi (o magari più di uno) dei 320 vaccini allo studio: di cui 92 in fase pre-clinica, 38 in fase clinica, ossia su un gruppo ristretto di volontari, e nove in fase tre di sperimentazione, su migliaia di partecipanti (quello di AstraZeneca, per esempio, su circa 30.000).
«Sostenere che avremo un vaccino disponibile entro l’anno è poco realistico» afferma l’immunologo Sergio Abrignani, docente di patologia generale all’Università di Milano, che per 18 anni ha lavorato in una grossa azienda produttrice di vaccini. «Lo dice chi non fa parte di questo mondo. La fase tre di sperimentazione, quando si punge con un ago 30.000 persone e ad altrettante si inietta un placebo, richiede almeno quattro-sei mesi. La si può accorciare, come in questo caso, se si ha un budget importante, centinaia di infermieri e ampie basi logistiche, ma poi inizia un periodo che non si può abbreviare pur avendo i soldi».
Ossia: vedere quanti dei volontari immunizzati finiranno per contagiarsi nei mesi successivi, rispetto ai partecipanti cui è stato dato il placebo. «E certo non si può incitarli ad avere comportamenti imprudenti, a girare senza mascherine abbracciando tutti» aggiunge Abrignani. «Solo se nel gruppo vaccinato ci sarà un numero significativamente meno elevato di contagi rispetto al gruppo di controllo, sapremo se il vaccino è efficace».
Né si possono esporre i partecipanti direttamente al virus, sia pure con il loro assenso e pagandoli. Ci aveva provato un’azienda che offriva alle case farmaceutiche un servizio di reclutamento: 50.000 volontari disponibili a farsi iniettare il prodotto e poi il coronavirus, ma la cosa è morta lì. «Ci sono vaccini che possono essere studiati infettando i volontari, come nella malaria, perché esiste un farmaco che funziona» spiega Abrignani. «Ma per Covid-19 una terapia risolutiva non c’è ancora. E poi non sarebbe etico».
Tutte le aziende in corsa per brevettare «la Cura» del secolo utilizzano, grosso modo, quattro piattaforme tecnologiche per innescare una risposta immunitaria che blocchi il virus, e qui dobbiamo, sia pure brevemente, entrare nei dettagli. Vaccini genetici, ossia basati sugli acidi nucleici virali, Dna o Rna (Moderna, BioNTech, Pfizer, CureVac, Sanofi…); vettori virali, cioè altri virus ingegnerizzati e utilizzati come taxi per trasportare dentro l’organismo i geni del coronavirus (AstraZeneca usa un adenovirus di scimpanzé, messo a punto dall’Irbm di Pomezia, l’italiana ReiThera, allo Spallanzani, uno di gorilla, e puntano su vettori virali anche la cinese CanSino Bio, la russa Gamaleya, Merk, Novartis…); vaccini basati sulle proteine ricombinanti del virus (di nuovo Sanofi, Novavax, Kentucky BioProcessing, Università del Queensland…); infine, vaccini che usano coronavirus attenuati o inattivati (in Cina, Sinovac Biotech e Sinopharm, in India Bharat Biotech).
Quale che sia la scelta, il target è uno solo: indurre anticorpi che neutralizzino l’interazione fra la proteina spike del coronavirus e il recettore Ace2 sulle cellule umane. Uno sforzo gigantesco, con alcune incognite. A tutt’oggi, per dire, non esiste in commercio alcun vaccino basato su Dna o Rna, tecnologia più veloce ma assai meno sperimentata di quella con proteine ricombinanti o vettori virali. «E della quale» ha detto a Nature Michael Diamond, immunologo virale alla Washington University di St. Louis, «non sappiamo ancora se sollecitino una robusta risposta immunitaria contro il coronavirus».
Ci vorranno un paio d’anni, piuttosto che pochi mesi, per vedere il vaccino in farmacia o negli ambulatori medici. «Quello che potrebbe succedere, se tutto va liscio e non ci sono intoppi, è che entro il 2020 potremo dare l’autorizzazione» spiega Guido Rasi, direttore esecutivo dell’EMA (Agenzia europea per i medicinali e presidente dell’ICMRA (International coalition of medicines regulatory authorities), la coalizione che riunisce le autorità regolatorie del farmaco di tutto il mondo. ««Poi, certo, molto dipende dalla bontà dei dati che i produttori ci portano: se dimostrassero un’efficacia del 95 per cento, zero effetti collaterali e un solido piano di produzione, sarebbe certo più facile approvarli rapidamente».
Nel caso del vaccino anti-Covid, è presto per sapere se proteggerà, come quello per l’influenza, tra il 40 e il 70%, se sarà superiore o semplicemente dimezzerà il rischio di contagio. O, ancora, se non impedirà l’infezione bensì la gravità della malattia. «A ogni grado di protezione andranno associare altre misure di contenimento, come continuare comportamenti di cautela e distanziamento» precisa Rasi.
Con una pandemia che fa il giro del pianeta, andata e ritorno, anche un vaccino che «si limita» a dimezzare il rischio non sarebbe da disprezzare. Ma, ammesso che entro fine anno si accenda il semaforo verde, non sarà il caso di buttare via le (insopportabili) mascherine: «L’approvazione non è una bacchetta magica per cui il giorno dopo il vaccino è pronto» continua Rasi. «Dovrà partire la grande macchina della produzione e distribuzione di massa, con un trasporto mondiale che inevitabilmente subirà qualche ritardo».
Assicurarsi la capacità per produrre quantità titaniche di vaccino (previste 9 miliardi di dosi) non è banale: nel 2009, quando fu diponibile quello contro il virus H1N1 dell’influenza A (un milione di dosi iniziali), si scoprì che gli stabilimenti per produrre le fiale non erano abbastanza.
Infine, la domanda che, dopo la frenata di AstraZeneca, tutti si fanno: quando lo avremo, sarà sicuro, oltre che efficace? Lo sarà, come tutti i vaccini approvati finora, e sono le stesse multinazionali a pretenderlo. Non perché abbiano a cuore la salute dell’umanità – la loro priorità, legittima, è il profitto – ma perché non possono giocarsi credito e affidabilità sulla più grande partita scientifica del secolo. «Del resto» riflette Rasi, «il sospetto evento avverso dichiarato di fronte al mondo da Astra Zeneca e lo stop temporaneo alla sperimentazione dimostrano il rigore con cui vengono valutati tutti i passaggi dei test».
Qualche settimana fa, nove grandi aziende farmaceutiche hanno sottoscritto un impegno ufficiale in cui assicurano di «seguire alti standard etici e i più rigorosi principi scientifici per garantire la fiducia pubblica nel modo in cui vengono condotti i test del vaccino anti-Covid». Documento resosi necessario soprattutto per il timore che molti americani non si fidino: un sondaggio condotto negli Usa agli inizi di settembre riporta infatti che solo il 21% di loro sarebbe disposto a farsi vaccinare il prima possibile.
In Italia? Pare che il 40% circa (sondaggio Deutsche Bank) non sia poi così sicuro di volerlo. E non sono i soliti no-vax, semplicemente persone che hanno dubbi e timori. Percentuali non da poco. Stabilito che l’«immunità di gregge» per fermare la pandemia dovrebbe essere intorno al 60%, anche il migliore vaccino rischia di non essere un muro abbastanza alto. «Quando arriverà» conclude Rasi, «dovremo essere pronti con le autorità sanitarie per un piano di comunicazione coerente, adeguato, sincero e serio. Solo così sarà un formidabile strumento contro il virus».
La verità su test e tamponi
Faccio il sierologico. No, anzi, il tampone. E se il sierologico sbaglia? Se il tampone fa cilecca? Ma poi, se il risultato è negativo o positivo, sarà proprio vero? Lo abbiamo chiesto a Giovanni Maga, direttore dell’Istituto di genetica molecolare del Cnr.
Tampone molecolare: È quello che dà la risposta più precisa sull’infezione in corso. Si preleva dal naso o dal retro della bocca un campione di muco, si estrae l’Rna del virus e lo si amplifica in laboratorio. Affidabilità superiore al 98%. Ma l’efficacia dipende anche dall’abilità di chi effettua l’operazione.
Test sierologico: Cerca gli anticorpi prodotti come risposta all’infezione. Rileva le immunoglobuline di classe M, che indicano l’infezione in atto, e quelle G, prodotte durante l’infezione ma che poi rimangono nell’organismo. Affidabilità: 90-95% per le IgG e 80% per le IgM.
Pungidito: Invece del sangue venoso, si prendono poche gocce dal dito. È utile per lo screening, ma ha una percentuale di falsi negativi non indifferente, circa 20 su 100. Affidabilità intorno all’80%.
Test della saliva: O tampone rapido: dalla saliva si rilevano le proteine virali. Il senso è lo stesso del tampone molecolare, anche se le due tecniche ricercano cose diverse: uno l’acido nucleico e l’altro le proteine. Affidabilità in fase
di validazione.
Test virus-anticorpi: Il nuovo esame, basato sulla ricerca dell’antigene con tampone naso-faringeo, scopre in 12 minuti virus e anticorpi. Serve però un apposito macchinario. Atttendibilità (secondo l’azienda) del 95%.
Test su microchip: Il vantaggio è avere una risposta rapidissima – pochi secondi – e di poter usare quantità di campione molto basso. Ma è un metodo sperimentale.
Falsi positivi/negativi: A un test sierologico positivo segue un tampone negativo, come mai? Forse il primo test ha dato un falso positivo, oppure la carica virale è così bassa da non essere rilevabile (si dovrebbe ripetere il test dopo una settimana). Altra «anomalia»: dopo la malattia, a un tampone negativo ne segue uno di nuovo positivo. Il motivo: un’imperfetta guarigione può causare una ripresa (rebound) della viremia, ossia apparente assenza di virus e ricomparsa dello stesso. Alcuni casi di re-infezione in realtà erano dovuti a rebound.
Maddalena Bonaccorso
