- Nelle corsie di tutto il mondo, in attesa di un vaccino risolutivo, si usano medicine «prese in prestito» da altre malattie. Che in qualche modo aiutano. Ma la vera svolta avverrà quando dai laboratori usciranno farmaci mirati: chiavi chimiche fabbricate apposta per bloccare la porta attraverso cui il coronavirus entra. E quel momento è vicino.
- Il vaccino italiano dell’azienda Irbm: uno dei primi in gara. Potrebbe arrivare già prima dell’inverno.
Scegliete la metafora che preferite. Un duello, una partita a scacchi, un inseguimento a un ladro veloce e camaleontico. In ogni caso, per ora sta vincendo lui. Dalla sua, ha un vantaggio enorme: la novità. Non sappiamo quali sono le sue abitudini, non ne conosciamo i punti deboli, non riusciamo a incastrarlo. Ce la faremo. I cervelli umani, e quelli artificiali, che studiano il Sars CoV-2 (oggi lo chiamano tutti Covid-19, ma quello è il nome della malattia) sono così tanti, e così concentrati su questo formidabile nemico, che saremo noi ad avere la meglio. Oggi però chi sopravvive, e la conta dei guariti è l’unico aumento confortante del funesto bollettino delle 18, lo fa soprattutto grazie alle sue forze, al sistema immunitario che alla fine scaccia l’intruso e riporta la pace «dentro casa». Tutti i farmaci, o meglio i pochi utilizzati in corsia, fanno quello che possono. Qualcosa. Non molto di più.
Antivirali e antinfiammatori, per la maggior parte. Pensati per altre malattie, sono, come si dice in linguaggio medico, «farmaci riposizionati», off-label. Fuori etichetta. Negli ultimi giorni, in grande spolvero è la clorochina (o idrossiclorochina, che ha lo stesso meccanismo d’azione), vecchio e glorioso antimalarico. Donald Trump, con entusiasmo tranchant, ha spronato lo scienziato Anthony Fauci, direttore dei National Institute of Allergy and Infectious Diseases, come si fa con un maggiordomo svogliato: «Diamola a tutti Anthony, che abbiamo da perdere?». Al di là delle frenesie presidenziali, nella manciata di rimedi contro il coronavirus la clorochina occupa il suo posto: «È un farmaco con una buona sperimentazione alle spalle, fu usato fin dall’inizio dell’epidemia di Sars dimostrando un certo grado di efficacia» spiega Massimo Andreoni, direttore scientifico della Società italiana di malattie infettive e tropicali all’Università Tor Vergata di Roma. «Contro il coronavirus ha dato discreti risultati, non in studi su grandissimi numeri però. Io stesso la uso, se non ci sono contro-indicazioni, su pazienti Covid-19 con quadro clinico avanzato. Ha dimostrato, in vitro, una doppia attività anti-virus e di modulazione del sistema immunitario. Utile, certo. Però non risolve il problema».
Approvata dalla Fda per «uso emergenziale», serve, insomma, ma non abbastanza. Lo stesso refrain che ricorre per le altre pallottole sparate contro questo «virus mascalzone» (splendida definizione dell’infettivologo Stefano Vella). Antivirali per Ebola (Remdesivir, tra i più promettenti) o per l’Hiv; anticoagulanti (eparina a basso peso molecolare, previene i trombi e forse riduce la presenza virale, sarà testata in 14 ospedali italiani); antitumorali (contro il cancro alla prostrata); antinfluenzali come l’Avigan (ha avuto i suoi 15 minuti di notorietà, rapidamente sfumati); antinfiammatori contro le malattie autoimmuni, come l’artrite reumatoide. «Questi ultimi, attivi contro l’Interleuchina 6, li diamo per impedire la temuta tempesta di citochine: dopo l’infezione, l’eccessiva reazione infiammatoria è infatti ciò che fa precipitare le condizioni dei malati» prosegue Andreoni. «Nella disperazione dell’emergenza proviamo i farmaci che abbiamo. Ma a mio parere nessuno modifica davvero il decorso della malattia».
Il momento «eureka» avverrà quando dalle oltre 100 sperimentazioni in corso in tutto il mondo (circa 70 molecole candidate, testate in più di 15 nazioni) emergerà un composto che, come una chiave cesellata, si adatterà perfettamente alla «serratura» usata dal virus. Individuare il bersaglio, dunque, prendere la mira e fare centro. E però stiamo ancora aspettando. «Guardi che per avere un buon farmaco ci vogliono diversi anni, dalla sperimentazione alla farmacia» avverte Andreoni. «Non sorprende che nel giro di cinque mesi non lo abbiano ancora trovato. Certo, in un’emergenza come questa i tempi saranno più brevi, per alcune fasi alla base della validazione ci sarà la strada spianata». Del resto, mai prima d’ora si era verificata una tale concertazione di studi, analisi, trial clinici. Si tratta di fare bene, ma in fretta. Di sperimentare subito, ma di essere certi che funzioni. Una sfida micidiale. Però possibile. «La ricerca di antivirali ha avuto un’accelerazione senza precedenti nell’epidemia di Hiv, quando lo studio di questo virus fece capire che esistono molti bersagli da colpire» ricorda Francesco Scaglione, docente all’Università di Milano, farmacologo clinico all’ospedale Niguarda e membro della sezione Clinica della Società italiana di farmacologia. «Fu una grande palestra per i virologi. Era la strada intrapresa anche con per la Sars del 2002, poi interrotta. E che si sta ripercorrendo per il Sars CoV-2».
Per entrare nell’organismo e compiere un «colpo di stato» molecolare, prendendo il potere sulle nostre cellule e ordinando loro di fabbricare tante copie di se stesso, ogni virus agisce più o meno nello stesso modo. Con un bagaglio «leggero» di soli 29 geni (nulla, confronto ai circa 30 mila del nostro corpo) il coronavirus entra e devasta. La prima mossa è trovare punti di aggancio sulle cellule dei polmoni, poi impadronirsi del Dna cellulare per replicare il proprio acido nucleico (Rna, nel suo caso), utilizzare particolari enzimi per sintetizzare le sue proteine, infine tagliarle, come un sarto, per costruirsi l’involucro e rilasciare tanti cloni virali.
Ingresso, sintesi, rilascio. Tutti passaggi che rappresentano altrettante buone occasioni per sabotare l’invasione. Qual è il punto? Che il bersaglio molecolare di ogni virus è diverso. L’antivirale ideato per l’Hiv, per esempio, può non essere così efficace contro il coronavirus. I proiettili migliori, alla fine, saranno quelli specifici per il Sars CoV-2. Anche le spike, gli uncini con cui il «piccolo bastardo» aggancia i recettori Ace2 dei polmoni, sono un potenziale bersaglio. Molti dei test in corso si stanno focalizzando proprio su queste «spine», nel tentativo di mettere a punto anticorpi monoclonali che le riconoscano come nemico e le neutralizzino.
L’uso del plasma ricavato dai pazienti guariti, ricco di anticorpi contro il Sars-CoV-2, rientra in questo filone e viene studiato in vari ospedali (anche al San Matteo di Pavia). In Cina lo hanno provato su un migliaio di malati, con risultati definiti dal dottor Lu Ming di Wuhan «soddisfacenti» soprattutto sull’ossigenazione e respirazione. «Non è detto che chi è guarito abbia quantità importanti di anticorpi» riflette Scaglione. «Il plasma dei guariti resta comunque un’ipotesi interessante. Si tratta di definirne bene le condizioni di impiego». Tra gli innumerevoli articoli setacciati per avere un quadro (più o meno) completo di cosa bolle nella pentola della scienza, ci colpisce un titolo: «Antiparassitario uccide il coronavirus in 48 ore». Sperimentato all’Università Monash di Clayton, in Australia, l’Ivermectin pare in grado di ridurre di cinque volte, in vitro, il Sars Cov-2.
Il solito roboante annuncio? «È un farmaco molto efficace contro vermi e parassiti. Su cellule infettate dal coronavirus ha mostrato risultati splendidi» risponde Scaglione. Il problema è che l’Ivermectin uccide il virus a una concentrazione mille volte maggiore di quella raggiungibile in un uomo. Ma è un limite aggirabile, dice Scaglione. «Vale la pena tentare, stabilendo bene le dosi da utilizzare, anche perché non è detto che in vivo occorra rispettare esattamente le condizioni della coltura cellulare. Dosi più alte si potrebbero usare sottocute. Per ora questa è una formulazione che esiste solo per uso veterinario, ma anche questo non è limite assoluto: io stesso anni fa somministrai, chiedendo l’autorizzazione, un’infusione sottocutanea a un paziente con Hiv che aveva i polmoni pieni di vermi. Guarì in una settimana».
Infine, all’orizzonte ecco il primo farmaco creato espressamente contro il coronavirus, non mutuato cioè da altri usi e consumi: Eidd-2801, messo a punto dal virologo Ralph Baric del North Carolina, «un geniaccio» che i coronavirus li studia da 35 anni. Si tratta di un inibitore della polimerasi, enzima che il Sars-Cov 2 utilizza, come fosse benzina, per replicarsi. Funziona sui topi e in vitro, tra poco, negli Stati Uniti, lo sperimenteranno anche sull’uomo.
Per parlare del futuro contro la pandemia, Scaglione ama ricordare gli inizi della ricerca contro i microbi, ai primi del Novecento. «Durante una conferenza alla Sorbona, lo scienziato tedesco Paul Ehrlich disse: “Sappiamo che le infezioni sono dovute a batteri, ma dobbiamo rassegnarci a non poterle mai curare perché servirebbero proiettili magici che li uccidono in modo selettivo”. Con la scoperta della penicillina, si capì che questa possibilità esisteva, e arrivarono antibiotici a non finire. Che siano batteri o virus, la cosa importante è individuare la loro via di ingresso e di replicazione. È successo così per l’Hiv, per il virus dell’epatite C, accadrà lo stesso per il coronavirus. Una volta scoperta la porta, ossia quel gruppo di molecole che il virus usa per entrare, si potranno mettere a punto un sacco di chiavi per bloccarla».
Il vaccino italiano dellíazienda Irbm: uno dei primi in gara. Potrebbe arrivare già prima dell’inverno.

di Maria Elena Capitanio
«Una partita enorme in cui speriamo non ci siano figli e figliastri d’Europa». La racconta così la sfida al vaccino per il coronavirus Piero Di Lorenzo, presidente di Irbm, l’azienda italiana che a fine mese partirà con i trial clinici sull’uomo dopo l’esito positivo della sperimentazione nei suoi laboratori. L’avvertimento va alla politica, che ora «deve sedersi al tavolo con Angela Merkel, Boris Johnson e gli altri governi, mettendoci soldi, per evitare che l’Italia finisca in frantumi come un vaso di coccio in mezzo a quelli di ferro». De Lorenzo condivide con Panorama i molti interrogativi di natura politica che adesso si aprono, tra cui uno cruciale: «Chi gestirà, una volta approvato, le dosi del vaccino a livello globale?». Usa tutte le prudenze del caso il manager, ma con i risultati siamo a buon punto, anche considerando che nella storia della Irbm c’è la scoperta del vaccino anti-Ebola e la commercializzazione di uno dei principali farmaci per l’Aids.
Il vaccino sperimentale è il risultato della sinergia di due expertise, quello dell’Irbm e quello dello Jenner Institute della Oxford University. Come si è arrivati all’obiettivo?
Lo Jenner è uno dei primi centri di ricerca al mondo per i vaccini e Sarah Gilbert, direttrice della divisione vaccini di Oxford, è un mostro sacro. Loro studiano i coronavirus da 17 anni e hanno già realizzato quello contro la Mers, la sindrome respiratoria acuta del Medioriente. Quando i cinesi, lo scorso 10 gennaio, hanno messo su Internet il sequenziamento del Sars Cov-2, a Oxford in 20 giorni hanno sintetizzato il gene della proteina spike, che è quell’involucro rosso bitorzoluto detto «corona» del virus, che è la parte contagiosa e pericolosa, e ce lo hanno mandato.
A quel punto c’era bisogno di un vettore che portasse il gene sintetizzato, cioè depotenziato, della proteina spike all’interno dell’organismo, come una specie cavallo di Troia. E qui siete entrati in campo voi.
Abbiamo messo a disposizione un adenovirus, il virus di un banale raffreddore, ulteriormente depotenziato in modo che non si possa replicare nell’organismo. L’adenovirus agisce, appunto, come una «navetta». Al suo interno si colloca il gene sintetizzato della proteina spike e lo si inserisce nell’organismo umano che, sentendosi sotto l’attacco di un virus, reagisce producendo anticorpi. L’attacco virale è finto, il virus inserito non è attivo, però quella persona ha prodotto gli anticorpi e diventa immune.
In pratica avete unito la vostra esperienza con Ebola a quella dello Jenner con la Mers…
Sì. Quel tipo di sintetizzazione era già stata utilizzata nel vaccino anti-Mers e ne era stata verificata la non tossicità. Anche il nostro vettore è stato già testato nel vaccino anti-Ebola. Nel caso di Covid-19 abbiamo caratterizzato l’adenovirus in funzione del nuovo gene.
Quali sono gli step per arrivare a un vaccino vero e proprio?
Normalmente, quando si esce dalla fase preclinica, cioè dal laboratorio che ha fornito le risposte positive come è accaduto a noi, si procede con i test sugli animali per verificare che non sia tossico. Poi si entra nella sperimentazione clinica sull’uomo. Nella prima fase, che dura 4-5 mesi, si fanno test su 10-15 volontari sani; poi, c’è la seconda, che prevede 150 volontari sani e può durare anche due anni. Infine, nella terza, il campione è più ampio, tra i 500 e i 700 volontari sani.
Tempi lunghi, e qui c’è una pandemia mondiale…
Le autorità regolatorie agiscono sempre in base al principio del male minore, per cui accettano qualche rischio in più di mancata efficacia del vaccino in cambio del fatto che tu arrivi prima a immunizzare la gente ed eviti migliaia di morti al mese. In questa logica, la Mhra (l’Agenzia del farmaco inglese, ndr) è orientata a dare l’autorizzazione per procedere direttamente alla fase clinica 3.
Da chi è finanziato il vaccino?
Soprattutto dal Cepi (fondato da Bill e Melinda Gates, ndr), un organismo sovranazionale creato in seguito all’epidemia di Ebola e finanziato da alcuni governi nordeuropei, che ha come oggetto sociale il finanziamento della ricerca sui vaccini. Poi dal governo inglese e da un pool di banche sovranazionali, ma c’è già la disponibilità di alcuni governi per altri finanziamenti di centinaia di milioni.
Dopo la fase clinica, quanto ci vorrà per l’approvazione del vaccino?
A fine aprile manderemo a Oxford il primo lotto di vaccino prodotto, entro giugno comincerà la sperimentazione e a fine settembre potremo avere i risultato dei test clinici. A quel punto, se sarà positivo, partirà il processo di autorizzazione, che richiede qualche settimana. Nel frattempo le dosi che abbiamo preparato potranno essere subito somministrate, gratuitamente, al personale sanitario e alle forze dell’ordine.
