Appena messi a punto i vaccini, il coronavirus ha iniziato a generare varianti che si trasmettono molto più velocemente. Alcune sono arrivate anche in Italia. La paura è che possano aggirare gli anticorpi di chi si immunizza. Una corsa infinita tra noi e «loro»? Forse no.
Non che ci fossimo abituati, questo no. Ma dopo un anno di convivenza forzata avevamo imparato, più o meno, a conoscerlo. Insidioso, invadente, a volte spaventoso. Ma era quella roba lì. Ora, di fronte alle versioni più «giovani» e agguerrite del vecchio Sars-CoV-2, quasi ci viene un pizzico di nostalgia.
Un mese fa, sulle prime pagine di tutti i quotidiani aveva debuttato la variante inglese, la B.1.1.7. Oggi le sigle per cui impensiersi sono almeno tre: oltre a quella british, ci sono la variante brasiliana B.1.1.248 (appena sbarcata in Italia, a Varese e in Abruzzo) e quella sudafricana N501Y.V2. Rispetto al ceppo di inizio pandemia, quello di Wuhan per intenderci, i «mutanti» sono assai più veloci nel diffondere l’infezione. E in quei tre Paesi i contagi sono volati.
In Inghilterra B.1.1.7 è ormai predominante, con una velocità di trasmissione più che raddoppiata; il suo successo evolutivo l’ha spinta in Irlanda, Danimarca e Israele, con qualche caso pure nel nostro Paese. A essere pignoli, potremmo aggiungere le varianti californiana, australiana, tedesca, ognuna con la loro sigla, ma non avranno spazio in questo articolo perché, almeno finora, non destano eccessive preoccupazioni.
Le tre sotto osservazione sono anche più cattive? Pare di no. Il premier inglese Boris Johnson ha detto che la B.1.1.7 sarebbe più letale di circa il 30%, ma ha citato dati relativi a pochi pazienti e ancora da verificare. In ogni caso, le «versioni aggiornate» del vecchio coronavirus stanno sparigliando una partita dove il nostro vantaggio, ossia aver messo a punto vaccini efficaci a tempi record, rischia di essere, se non vanificato, quanto meno depotenziato.
Intanto, la loro maggiore rapidità nel diffondere l’infezione basta da sola a far aumentare contagi, casi gravi, ricoveri in terapia intensiva e vittime, ma non è questo il punto principale. A non far dormire sonni tranquilli agli scienziati è un’altra incognita: i vaccini che stanno arrivando sono stati creati partendo dalle informazioni genetiche del virus disponibili un anno fa. Se queste informazioni cambiano, e lo stanno facendo, gli antidoti su cui il mondo ha investito innumerevoli quantità di soldi e di speranze, funzioneranno ancora? E per quanto tempo, se il Sars-CoV-2 persisterà nel suo trasformismo molecolare?
«Il coronavirus muta in siti rilevanti per la risposta immunitaria più velocemente di quanto si sperasse all’inizio, e vedendo emergere queste varianti non possiamo non essere preoccupati» premette Marco Cavaleri, responsabile della Strategia per le minacce alla salute e i vaccini presso l’Ema (l’Agenzia europea per i medicinali). «Alcune di queste mutazioni si sono verificate nella parte della proteina spike che costuisce il target dei vaccini. E in qualche modo potrebbero avere un impatto sulla loro capacità protettiva».
Così, nei laboratori di mezzo mondo è partita una frenetica corsa a verificare se gli anticorpi di chi è guarito dal Covid «originale» sono ancora capaci di fare da scudo nei confronti del virus mutato. Per la variante inglese, a quanto pare, sì. Su quelle brasiliane e sudafricane i dubbi sono leciti (e fondati). Manaus, per esempio, la città dell’Amazzonia che aveva raggiunto una sorta di immunità di gregge tanti erano stati i contagi e le vittime, è nuovamente alle prese con una seconda e devastante ondata dell’infezione. I guariti si riammalano, forse proprio a causa della variante brasiliana che aggira il sistema immunitario.
«Qualche giorno fa Moderna, insieme al Nih americano che collabora con questa azienda, ha fatto un comunicato in cui afferma che in test di laboratorio il loro vaccino funziona sia sulla variante inglese che sulla sudafricana» dice Cavaleri. «Ma con quest’ultima c’è un certo calo nella capacità di neutralizzare il virus».
Si chiama, in linguaggio scientifico, «fuga dalla risposta immunitaria». Non è detto che dentro la complessità di un organismo umano, anzichè nella semplicità di un vetrino, avvenga esattamente così, ma è una prima indicazione. Lo stesso Anthony Fauci, direttore del National Institute of Allergy and Infectious statunitense, ha definito la variante sudafricana, e in generale il fenomeno delle mutazioni del coronavirus, «un problema serio, che dovremo affrontare».
Qualche risposta potrebbe venire da uno studio che la Johnson & Johnson (il loro vaccino Janssen, basato non sull’Rna ma su un adenovirus umano, è monodose e non ha bisogno di una temperatura artica per essere conservato) ha avviato nei mesi scorsi in vari Paesi del mondo, compreso il Sudafrica, dove ha coinvolto 7.000 volontari. L’indagine di J&J potrebbe dare risultati importanti sull’efficacia del loro antidoto su numerose varianti del Sars-CoV-2, incluse le «terribili» tre, e i risultati sono previsti a breve.
«Certo che il coronavirus muta, ma ha comunque un genoma più stabile di tanti altri virus» premette Fausto Baldanti, responsabile del Laboratorio di virologia molecolare all’ospedale San Matteo di Pavia. «Quello dell’influenza, per esempio, muta 450 volte di più. E mutano più del Sars-CoV-2 anche i virus del morbillo o dell’epatite B, per i quali abbiamo vaccini che durano tutta la vita. Non è neppure certo che, nel caso del coronavirus, ci si dovrà immunizzare ogni anno, è presto per affermarlo con sicurezza. Detto ciò, queste varianti sono un campanello d’allarme perché hanno tutte mutazioni nella regione spike che il virus usa per agganciarsi alle cellule umane».
Chi alla fine avrà la meglio, se il virus che si evolve per sfuggire agli anticorpi (perché questo è il mestiere dei microbi) oppure i vaccini che ne bloccano la replicazione, lo si saprà solo in campo aperto, man mano che ci si immunizza. «Io, per esempio, ho ricevuto una settimana fa la seconda dose, e fra 15 giorni circa la mia immunità sarà completa» continua Baldanti. «Una volta ottenuto un numero sufficiente di sieri di vaccinati, si potranno utilizzare per verificare se bloccano la replicazione virale delle varianti. Inoltre questi vaccini di nuova generazione stimolano anche la risposta immunitaria T. E tra pochi mesi arriveranno gli anticorpi monoclonali, capaci, insieme ai vaccini, di togliere il virus dalla circolazione».
Nel frattempo, le contromosse obbligatorie sono: accelerare il più possibile le vaccinazioni (al netto degli intoppi nella catena di produzione e delle mancate consegne), mantenere tutte le misure di distanziamento sociale, tenere d’occhio le sequenze genetiche del virus. «Abbiamo sei mesi di tempo, in cui il maggior nemico sono i ritardi nella somministrazione del vaccino» avverte Baldanti. «Dovremo anche fare una sorveglianza capillare del genoma del virus sia sui focolai sia a campione sul territorio». Operazione, quest’ultima, che si sta conducendo in molti Paesi; in Italia un po’ meno, a dir la verità, tranne in osservatori specifici (per esempio quello del San Matteo di Pavia, dove sin dall’inizio della pandemia si sono isolati diversi ceppi virali, e si continua a farlo).
A proposito, in Italia quante e quali varianti girano? A quanto pare una decina; a parte quella inglese, che però non sembra aver attecchito, e quella brasiliana (finora qualche caso isolato), le più frequenti sono la balcanica e la spagnola, arrivate dopo i viaggi estivi, ma nessuna è diventata predominante.
Immaginando, con un certo pessimismo, che l’efficacia di vaccini venga azzoppata da un acrobatismo virale di troppo, che si fa? È davvero così semplice aggiornare quelli appena messi a punto? Abbastanza, concordano gli scienziati. È possibile in tempi breve aggiustarne la composizione, soprattutto per quelli a Rna (Pfizer e Moderna) ma non solo. Anche gli altri (AstraZeneca, Reithera, Johnson & Johnson) sono vaccini di nuova generazione, rimodulabili senza troppi sforzi. Senza contare che hanno comunque una capacità «cross-neutralizzante» più elevata di quelli tradizionali: ossia possono proteggere anche da ceppi diversi, non contenuti nella formulazione di partenza. Il problema, se si presenterà, sarà semmai condurre di nuovo gli studi, aspettare l’approvazione degli enti regolatori, riprocedere con la distribuzione e la somministrazione.
Infine, se il virus cambia strategie lo fa non solo per diventare più veloce nella trasmissione e per eludere la risposta immunitaria (che sia quella naturale dell’organismo o indotta farmacologicamente); ma anche per arrivare, con il suo ospite riluttante, a una sorta di adattamento reciproco: tu mi accogli senza fare tante storie, io mi sistemo senza procurarti troppi danni. In genere in virus vanno in quella direzione, così come hanno fatto coronavirus precedenti. Partono duri, poi si trasformano in raffreddore.
Farà così anche il Sars-Cov-2? «Questo è un agente patogeno nuovo, che ha da poco iniziato a circolare negli esseri umani e deve ancora trovare la sua strada per stabilizzarsi» risponde cauto Cavaleri. «Ma è ragionevole pensare che succederà così anche in tal caso. Quanto ci impiegherà? Difficile prevederlo, non ne sappiamo abbastanza. Ma direi che nel giro di un paio d’anni potremo trovarci in uno scenario di questo genere».
