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Chernobyl: «Il disastro atomico si poteva evitare»

Chernobyl: «Il disastro atomico si poteva evitare»

Parla un tecnico che lavorava nella centrale dove, il 26 aprile 1986, si è verificato il più grave incidente nucleare della storia. Tra immagini indelebili e il racconto di ciò che allora imponeva l’Unione Sovietica, dice: «Ci hanno fatto passare attraverso l’inferno senza avvertirci».


Il 26 aprile 1986 Volodimir Dimitrovich non svolgeva il turno alla centrale. Era l’anniversario del suo matrimonio, e avrebbe dovuto essere un giorno di festa. Di sicuro fu una giornata che non ha più dimenticato. Nella notte tra il 25 e il 26 il reattore numero 4 dell’impianto di Chernobyl sfuggì in pochi secondi al controllo ed esplose, scatenando la più grave catastrofe nucleare della storia. Volodimir, fisico di formazione, era vice capo operativo per i reattori 3 e 4. Panorama ha raccolto il suo racconto di quei giorni terribili.

Quell’anno una primavera precoce ha appena risvegliato la natura, e niente sembra poter fermare il fervore della cittadina di Pripyat, dove i migliori giovani tecnici del Paese vengono inviati per operare nella centrale. Stipendi buoni, condizioni di vita migliori rispetto al resto dell’Unione Sovietica, non manca nulla per una crescita serena dei bimbi: alcuni giorni ancora e sarà inaugurato un nuovo luna park, dove festeggiare la bella stagione. La figlia di Volodimir, Olga, ha compiuto tre anni l’11 febbraio. Si è conservata una preziosa foto di quel giorno, nel loro appartamento. La moglie è un medico molto stimato al Policlinico della cittadina.

Ma verso le tre del mattino, Volodimir viene svegliato da una telefonata. La voce del collega della centrale è concitata: è successo un incidente, molto serio, gli strumenti però non rivelano la natura dell’accaduto. Mandano una macchina a prendere il vice capo per raggiungerli in sala controllo. Ricorda: «Nell’aria c’è uno strano odore metallico, inconsueto, come di polvere bruciata».

Da lontano, una fosforescenza rossastra aleggia sopra la centrale. «Avvicinandomi all’impianto ho questa visione infernale: fiamme altissime che si levano dal reattore numero 4 e altri bagliori salgono dal tetto del reattore 3. Faccio fermare la macchina, a breve distanza, per osservare gli strani detriti sull’asfalto: sono frammenti di combustibile nucleare e grandi pezzi di grafite. La stessa che poco prima era chiusa nel cuore del reattore, ad altissima radioattività! Allora capisco che è successo l’irreparabile».

Intanto i pompieri cercano di spegnere le fiamme, senza immaginare l’immane potenza delle radiazioni. Volodimir arriva nella sala controllo, e vede i colleghi, traumatizzati, che non vogliono rendersi conto della realtà: nonostante i rapporti di quanti, rischiando la vita, hanno osservato dall’esterno l’edificio esploso, i dati degli strumenti non ne registrano la dimensione. Qualcuno dice che è impossibile una fusione del «nocciolo». Peccato che un’esplosione abbia già proiettato in aria il coperchio in acciaio e cemento da mille tonnellate, che sigillava proprio il nocciolo ormai liquefatto. Il reattore è distrutto: non ci sono più pompe di raffreddamento funzionanti, si vedono i tubi squarciati, cavi elettrici spessi come un braccio saettano come serpenti, una parete è crollata e l’enorme coperchio è ricaduto verticalmente.

Nella sala operativa pensano di immettere acqua e s’illudono di far scendere le barre di controllo del combustibile. Ma c’è un equivoco fatale: mentre i rilevatori più sensibili restano chiusi in cassaforte, quelli presenti nella sala rilevano una radioattività al massimo di 3,6 roentgen/ora, livello basso e palesemente incongruo alla situazione. Quel valore darà a lungo l’illusione, ai tecnici chiusi nella loro sala, che il reattore sia ancora intatto. «Un livello simile era semplicemente ridicolo, dopo quel che avevo visto fuori ».

Sì, Volodimir ha capito benissimo come stanno le cose. Il capo della Protezione civile, Serafim Vorobev, dispone di un dosimetro molto più sensibile, che arriva fino a 200 roentgen/ora. Esce all’esterno vicino al reattore 4 e all’istante il dosimetro schizza a fondo corsa! Le radiazioni sono di molto superiori a quella soglia già altissima. Corre a riferirlo al direttore Briuchanov, che però lo caccia senza ascoltarlo, e così fa un altro dirigente: non si fidano di lui, lo considerano un emotivo, e lo vedono terrorizzato. Ne ha ben donde. Si è capito poi che la grafite e i detriti sparsi ovunque rilasciano radiazioni pari anche a 10 mila roentgen/ora, una dose capace di uccidere in breve tempo. Già 500 roentgen/ora per cinque ore significano morte certa. «Tutti sono increduli, perché l’esperimento compiuto nella notte non ha nulla di eccezionale. È già stato eseguito da noi nel reattore 3, senza dare problemi. Non è un test pericoloso, condotto da irresponsabili, come hanno poi tentato a lungo di far credere. La costruzione della centrale, invece, era stata approssimativa e affrettata, tralasciando i problemi di sicurezza, per le solite esigenze dell’epoca: la fretta, la burocrazia, i piani e le scadenze a discapito della qualità. I reattori sono apparsi fin da subito delicati da controllare, poco stabili, richiedevano una cura e un’attenzione costanti». E aggiunge Volodimir, infervorandosi: «Non ci è stato detto nulla! Loro, a Mosca, paragonano la centrale a un samovar, tanto sicuro da poter stare sulla Piazza Rossa! È stato il rinvio dello spegnimento, dalle 14 all’una di notte, a causare la catastrofe. Il gestore della rete elettrica ci ha chiesto di continuare a fornire energia fino a sera. Gli sbalzi di potenza hanno alterato la fisica del reattore e hanno preparato le condizioni per la perdita di controllo e l’esplosione. Per fare un paragone, era come un’auto impazzita: come se, togliendo il piede dall’acceleratore, la velocità dell’auto aumentasse a dismisura, senza alcuna possibilità di frenarla. L’ho detto, al processo, i colleghi non hanno fatto errori particolari: era l’impianto, progettato male e costruito peggio, che in quelle condizioni diventava incontrollabile».

Mentre Volodimir e i tecnici tentano di arginare gli effetti del disastro, la notizia si diffonde tra gli alti «papaveri» di Kiev e nella capitale. Sulle prime si pensa di sigillare la zona e tacere sull’incidente. Tuttavia, con il passare delle ore si comprende che la gravità della situazione impone l’evacuazione dei cittadini.

La vita, in quel 26 aprile, si svolge come in un qualunque, ignaro sabato sovietico: ci si sposa, molti lavorano nell’orto, i bambini giocano nei prati, le coppiette passeggiano con un gelato. Si nota solo che ci sono più poliziotti e auto di servizio; salvo i parenti stretti dei pompieri e dei tecnici contaminati, nessuno immagina quel che è successo.

Nella serata arrivano i plenipotenziari spediti dal Cremlino, Scerbina e Legasov, e solo il 27, nel primo pomeriggio, mille e cento autobus iniziano a portar via gli abitanti. Per pochi giorni soltanto, si dice. Non torneranno mai più. Pripyat diventa la Pompei del ventesimo secolo, una città fantasma che scatena da subito le fantasie apocalittiche di registi e scrittori.

Molti anni dopo la rete statunitense Hbo ha realizzato una miniserie di grande efficacia, che è appena stata trasmessa in chiaro anche in Italia. Intanto, Volodimir nella sala di controllo del reattore esploso cerca di spegnere il reattore 3, gemello del 4. Contatta gli operatori dei turni successivi, e ne convoca solo cinque, evitando ad altre decine di esporsi alle radiazioni. Resiste più di 24 ore, sino alle nove di mattina del 27 aprile, quando, ormai allo stremo, accetta di essere evacuato in ospedale. Viene portato, insieme ad altri ricoverati, all’aeroporto di Boryspol, e da lì a Mosca, alla famosa «Clinica n. 6», con i primi che sono rimasti irradiati. Resta per due mesi in ospedale. Volodimir si commuove: «Ho visto morire molti colleghi, otto, in particolare, tra gli amici più stretti. Ogni anno, poi, sono tornato a Mosca per ricordarli».

Sua figlia viene trasferita insieme con altri vicini. In tasca ha l’indirizzo di una zia di Chernigov, ignara di tutto. La moglie, come medico del Policlinico, accompagna i concittadini nell’evacuazione a Maksymovychi, pochi chilometri a ovest di Pripyat. Qualche giorno dopo, riesce a raggiungere la sua bimba. Alcune settimane più tardi, tutt’e due arrivano a Mosca per far visita a Volodimir. Però possono solo intravederlo da una finestra, che le saluta. È in stretto isolamento.

Riesce a riprendersi, e a raggiungere moglie e figlia a Chernigov. Un paio di mesi e la famiglia ottiene un appartamento a Kiev, dove cerca di rifarsi una vita… Ancora oggi, a 68 anni, gli occhi di Volodimir trasmettono intelligenza ed energia: forse sono state questa forza e questa fiducia, anche di fronte all’irreparabile, a farlo restare lucido, a non fargli commettere errori, a salvarlo. Riflette sulla tragedia che ha vissuto: «È stata il frutto di quell’epoca, di una mentalità, di un Paese che non si preoccupava di sacrificare le migliori energie allo sforzo militare. Siamo passati attraverso l’inferno, e non ci avevano avvertiti. Tanti si sono sacrificati, senza timore. Perché era giusto fare così. Tutto è cambiato, adesso. L’Ucraina ora è indipendente. Ma il vecchio impero è sempre in agguato. Essere qui, a ricordare e raccontare, è davvero un dono».

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