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Ruggeri: «Ce l’ho con i leoni da tastiera, l’inutile musica di oggi e anche la politica»

Ruggeri: «Ce l’ho con i leoni 
da tastiera, l’inutile musica 
di oggi e anche la politica»

Gli «anni di piombo», le rock band giovanili, la scuola contaminata dall’ideologia. Il cantante confronta la sua gioventù con quella di oggi che vive di «like» sui social, idolatria per sesso, soldi e lusso. Lo fa raccontando a Panorama il suo nuovo album La Rivoluzione e dice: «Quando c’erano ble Brigate Rosse la mia bottiglia molotov era il basso».


Il coraggio, uno non se lo può dare diceva Don Abbondio. Ecco, oggi, i cantanti sono paralizzati dal terrore. Basta leggere i loro post sempre più all’insegna dell’ovvietà, con frasi tipo no alla fame nel mondo, non picchiate le donne… Ma va?! Di che cosa hanno paura? Di perdere consenso, di perdere la sfida con la pagella dei social, dove tutto è “like” o vaffanculo» dice a Panorama Enrico Ruggeri, a poche settimane dalla pubblicazione del suo ultimo album, La rivoluzione. «Detengo il primato assoluto, il record di felicitazioni nascoste ricevute in privato. Molti vip, quando mi espongo sui social, mi dicono: “Bravo, gliene hai cantate quattro”. Poi, però, in pubblico, stanno abbottonatissimi. Mi fanno sorridere» prosegue Ruggeri.

È un concept album autobiografico La rivoluzione, un disco fatto di canzoni che partono da sé per delineare il ritratto di una generazione, quella che andava alle superiori a metà anni Settanta, come racconta la copertina del disco: una fotografia della sezione H del liceo classico Berchet di Milano. Era il 1974. «La mia generazione non ha vissuto il 1968, ma “gli anni di piombo”, le Brigate Rosse, le bombe… Erano gli anni del pensiero unico scolastico: il programma di filosofia arrivava a Hegel, venivano saltati a piè pari Nietzsche e Schopenhauer. Studiare italiano significava arrivare al massimo a Giovanni Verga senza alcun riferimento a D’Annunzio e al Futurismo. E così via fino alla terza liceo quando si studiavano le lettere di Gramsci. Così è nata l’egemonia culturale della sinistra in tutti gli ambiti» ricorda. «Io ero quello strano della sezione H, quello che andava a suonare il basso: avevo una band chiamata Champagne Molotov. Facevamo cover in cantina e ci divertivamo. In quel tempo della vita vinci se hai una grande passione: per me era la musica, per la stragrande maggioranza dei miei compagni la politica» ricorda.

Era un mondo di sale prove improvvisate, di amplificatori, chitarre, bassi, batterie e voci vere quello dove si faceva la gavetta, una pratica oggi in disuso. «Ben vengano allora i Måneskin, una band che arriva da un contesto più simile al mio, sono giovani che sanno suonare, una realtà diametralmente opposta a quella del ragazzino che fa un pezzo con l’iPad e poi passa il tempo a promuoverlo su Instagram. Negli anni della mia gioventù la scena musicale era spettacolare. C’erano gruppi e artisti straordinari in ogni genere musicale. Anche nel pop commerciale le cosiddette “canzonette” erano quelle degli Abba, giganti assoluti rispetto a quelli che scrivono canzonette oggi. In questo tempo la musica di qualità è un’élite. Anche per quanto riguarda le modalità d’ascolto. Lo streaming è l’acqua corrente, che per carità è utilissima, ma il vinile è lo champagne» spiega.

«D’altra parte siamo nell’era dell’arte intesa come rivalsa sociale. Sono convinto che John Lennon, certamente diventato ricchissimo grazie alle canzoni, non facesse musica per i soldi, ma perché aveva qualcosa di importante e di urgente da esprimere. Oggi i giovani virgulti della musica, i tronisti e gli influencer dicono le stesse cose, in sostanza ostentano la ricchezza, si invidiano tra di loro per un orologio… È un atteggiamento maldestramente mutuato dai rapper americani che sfoggiano anelli e limousine. E che però sono artisti di sostanza e mostrano quell’approccio come sberleffo alla società che li esclude. Facevano così anche i jazzisti afroamericani negli anni Cinquanta. Qui e ora non c’è nulla di tutto questo, solo una cafonesca rivalsa sociale…» sottolinea prima di tornare alle considerazioni di fondo che hanno ispirato il suo ultimo album: «Per la prima volta nella storia una generazione di genitori lascia ai figli un mondo peggiore di quello che aveva trovato. Abbiamo trasformato la competitività e il denaro in valori morali. Quando io ero piccolo, in casa, parlando delle persone, si diceva “quello è uno per bene, quello è un mascalzone”. Oggi, uno viene considerato fallito o vincente unicamente in base ai soldi che possiede. Per me non è così: il grafico del mio conto in banca e quello della felicità sono sempre andati in direzioni opposte» sottolinea. «La felicità per un musicista è riuscire a farlo di mestiere. Tutt’altra cosa è dover svolgere un altro lavoro di giorno per poter poi suonare la sera. Cito il buon Carletto Marx: “l’obbligo a produrre aliena la capacità creativa”. Nella mia carriera ho ottenuto molto più di quanto immaginassi. Mi sarebbe bastato fare tre o quattro dischi. E invece… Ho avuto una grande fortuna: capire subito che non avrei mai riempito San Siro e che al tempo stesso non sarei mai scomparso. Questa percezione mi ha evitato molti errori».

C’è una buona dose di ironia nelle canzoni de La rivoluzione, soprattutto nelle strofe di Non sparate sul cantante. «Quel brano ha una doppia ispirazione: la prima è la passione compulsiva di mio figlio per i western di Sergio Leone. Nel testo ci sono addirittura frasi prese direttamente dai film, tipo “Non bastano un asse e una corda per fare di te un impiccato” (da Il Buono, il Brutto, il Cattivo, ndr). Detto questo, la scintilla per il pezzo è stata una delle espressioni più infelici che un politico abbia pronunciato nel Dopoguerra. Mi riferisco a Giuseppe Conte quando nel pieno della crisi economica da pandemia parlò degli “artisti che ci fanno tanto divertire”. In quel momento c’erano decine migliaia di lavoratori dello spettacolo in ginocchio, un settore che stava morendo, tecnici luci e audio bravissimi e di grande esperienza costretti a reinventarsi come muratori… Ecco, ho voluto reagire con ironia a quello sfregio». n

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