Hanno inventato un sistema di trapianto «autologo» che potrebbe cambiare per sempre le tecniche operatorie. Però a causa del Sistema sanitario nazionale combinato alla burocrazia, gli scienziati della Hbw hanno dovuto spostare la sperimentazione al Policlinico di Helsinki. Con ottimi risultati.
La tecnica operatoria che potrebbe rivoluzionare la cardiochirurgia mondiale è italiana. Ma nel nostro Paese fino a oggi è stato impossibile sperimentarla. «Abbiamo dovuto rivolgerci all’estero per poter avviare i “trial” clinici» spiega a Panorama Antonio Graziano, scienziato e presidente della Hbw, società titolare del progetto Cardiograft. «Alla fine siamo arrivati in Finlandia. I risultati? Sei pazienti sono stati sottoposti al trattamento dei microinnesti con un follow up quinquennale che decreta il successo del progetto».
La procedura di intervento si basa sul «sistema Rigenera», che ha già attirato l’attenzione della Nato e dell’Agenzia spaziale europea per la possibilità di riparare porzioni di ossa e di pelle che abbiano riportato ferite lacero-contuse o ustioni, attraverso un trapianto «autologo» in cui il paziente e il donatore sono la stessa persona. Nel caso di un infarto o di un trauma cardiaco, il protocollo funziona allo stesso modo. Viene prelevato un piccolissimo pezzetto di cuore sano mediante una biopsia e da questo vengono poi ricavati tanti piccolissimi frammenti vivi (in pratica, i microinnesti) che saranno in grado di «ricostruire» la parte malata del cuore.
Questo passaggio avviene mediante la creazione di una sorta di «cerotto» naturale, grazie a un trattamento con alcuni biomateriali, oppure infiltrando i microinnesti direttamente nella parte malata del cuore perché si rigeneri dall’interno. In questo modo, la parte di muscolo cardiaco danneggiata non dovrà essere né trattata con un bypass né sostituita con l’intero organo. Semplicemente sarà autoriparata dalle stesse cellule dell’organismo che ricostituiranno il tessuto deteriorato. In pratica, l’officina corpo umano fabbrica da sé i pezzi da sostituire.
Le ricadute mediche di questa pratica sono potenzialmente inimmaginabili. Le criticità legate ai trapianti (il rischio di un rigetto, le difficoltà di reperimento degli organi, la compatibilità delle matrici organiche) verrebbero di colpo azzerate o, comunque, diluite in un arco temporale assai più lungo di quello ci cui ora dispone un malato in lista di attesa. Un microinnesto potrebbe, infatti, secondo gli studi clinici, rimandare il momento dell’eventuale trapianto potenzialmente fino a 15 anni. Un orizzonte temporale attualmente irraggiungibile per chiunque.
«I pazienti sottoposti a trattamento in Finlandia stanno tutti bene» sottolinea Graziano. «I risultati sono stabili e sono validi». Ma com’è nata questa collaborazione con il Policlinico di Helsinki? «Loro cercavano una tecnologia per risolvere i problemi legati all’uso delle staminali nella rigenerazione cardiaca, che non avevano dato i risultati clinicamente sperati. I microinnesti potevano essere la soluzione. Erano compatibili con la normativa e più vantaggiosi dal punto di vista biologico. Così, dopo un lungo iter di test e verifiche, siamo diventati partner per questo programma».
Prossimamente, alla Finlandia si unirà anche l’università di Tokyo. «Una collaborazione che ci fa onore ma che racchiude un po’ il paradosso della storia della nostra azienda» prosegue Graziano. «Abbiamo sviluppato forme di cooperazione scientifica con i Paesi più avanzati al mondo come Stati Uniti, Israele, Giappone, appunto, ma in Italia dobbiamo dialogare con l’impiegato dell’Asl che, senza nemmeno approfondire le carte, ci contesta che il trattamento non è conforme…».
L’Italia per questa volta ha perso l’occasione di essere la nazione pilota nel trattamento della rigenerazione cardiaca. E non solo per colpa della cecità di pochi. È tutto il sistema a funzionare poco e male, secondo Graziano. «Il Servizio sanitario nazionale non è a oggi una struttura in grado di sostenere il mondo ad alta competizione in cui operano le aziende biotech» denuncia il presidente di Hbw. «E la cosa più triste è che, nonostante la ricerca italiana si confermi di altissimo livello, nessuno si preoccupa di valorizzarla. E questo accade per vari motivi: per limiti di budget, per preclusioni ideologiche ma soprattutto per la farraginosità delle procedure che attualmente coinvolge anche i policlinici universitari, rendendo molto difficile di fatto l’attività di ricerca clinica».
«Centralismo statalista con un un surplus di burocrazia locale», lo definisce Graziano. «Il Ssn così com’è concepito in Italia» prosegue, «esiste solo in pochissime realtà del mondo, che comunque hanno caratteristiche demografiche e socio-economiche completamente diverse dal nostro Paese. La rigidità del sistema, d’altronde, si è dimostrata in tutta evidenza durante la pandemia sul tema di approvvigionamenti, logistica e assunzione di nuovi modelli diagnostici e terapeutici».
ll Pnrr, il tanto atteso Piano nazionale di ripresa e resilienza, potrebbe essere l’occasione giusta per invertire la rotta. «In teoria, sì» riflette Graziano. «Ma poi chi assicura che, dopo aver finanziato la ricerca, l’Italia sostenga i progetti che si sviluppano entro i suoi confini per dare una svolta significativa di innovazione anche in campo sanitario? Dobbiamo evitare il paradosso che in futuro i nostri pazienti siano costretti a “emigrare” all’estero per curarsi con tecnologia italiana».