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I postini del 41-bis

I postini del 41-bis

C’è il sistema del «codice Morse della bottiglia» e quello degli avvocati troppo «di parte», ci sono i contatti proibiti e gli aiuti dall’esterno. Il carcere duro oggi è un po’ meno duro. E parlare di smantellarlo non è più un tabù.


Tutto, ma proprio tutto quello che potrebbe creare un contatto tra un detenuto al 41-bis – il regime di carcere duro previsto dall’ordinamento penitenziario – e l’esterno viene controllato. Corrispondenza, pacchi da casa, telefonate… I colloqui con i familiari, oltre a essere ridotti, sono videoregistrati. Non esiste privacy e perfino la cella, ovviamente singola, è da Grande fratello: c’è una telecamera puntata h24, fatta eccezione per il bagno. Ogni regola mira a tagliare i ponti con le organizzazioni criminali di appartenenza. E anche i contatti con gli altri carcerati sono limitatissimi.

La finalità è evitare che i mammasantissima, i terroristi o gli arruffapopoli alla Alfredo Cospito, il primo anarco-insurrezionalista finito nel regime detentivo speciale, impartiscano ordini o passino messaggi. Nonostante le premure, però, lo scudo del sistema detentivo più afflittivo viene spesso bucato. Soprattutto da «postini», tramite i quali i detenuti riescono a far filtrare tra le maglie della sicurezza i loro ordini per i clan, per le cellule jihadiste o per gli squatter anarchici. Le visite in carcere, per quanto monitorate, spesso si sono trasformate in un pericolosissimo veicolo di informazioni per l’esterno. I boss si sono dimostrati molto abili a far trapelare ciò che volevano, scegliendo anche «postini» inconsapevoli.

L’ultimo episodio, sfruttato come cassa di risonanza per la vecchia battaglia contro il 41-bis, è quello di Cospito. Quattro parlamentari dem, Andrea Orlando, Debora Serracchiani, Walter Verini e Silvio Lai, il 12 gennaio varcano la soglia del carcere di Bancali, in Sardegna, per verificare le condizioni di salute dell’anarco-insurrezionalista da giorni in sciopero della fame. Lui detta le regole. se i quattro vogliono conferire, prima devono scambiare qualche parola con altri tre detenuti: un camorrista, un killer della ’ndrangheta e l’uomo che avrebbe dovuto premere il pulsante per azionare l’esplosivo della strage di Capaci. Gli inconsapevoli postini, pur non avendo consegnato alcun messaggio diretto all’uscita, con le loro dichiarazioni hanno innescato un nuovo dibattito sull’abolizione del 41-bis, vecchia battaglia della criminalità organizzata. E più di qualche boss, per la riuscita dell’operazione mediatica, avrà stappato una bottiglia.

A fare ammuina ci aveva provato tante volte, senza riuscirci, Antonello Nicosia, finto attivista incallito dei Radicali con un pallino per i diritti dei detenuti, che su YouTube pubblicava un format col quale portava avanti il progetto di alleggerire il carcere duro per i mafiosi. I magistrati della Procura antimafia di Palermo lo definiscono uno con strette relazioni nella «mala» che conta, quella dell’ala di Cosa nostra guidata da Matteo Messina Denaro. Grazie a un contratto di collaborazione con la ex parlamentare di Italia Viva Giusi Occhionero, 50 euro mensili formalizzati solo in seguito alla divulgazione dell’inchiesta, il professore, che portava in dote già una condanna a 10 anni per droga, entrava con disinvoltura nei reparti di 41-bis e poi, ritengono i magistrati, consegnava messaggi all’esterno. L’hanno intercetatto al telefono persino con un’amica della moglie di Filippo Guttadauro (sorella di Matteo Messina Denaro). In quella telefonata dichiarava obbedienza all’ex Primula rossa di Cosa nostra, arrivando ad affermare che lui (Messina Denaro) era il suo «primo ministro». Coincidenza: nel carcere di Palermo ha incontraro, inseme con la deputata renziana, Simone Mangiaracina (deceduto nel 2022 a 84 anni), ritenuto il boss di Campobello di Mazara, località scelta da Messina Denaro per la latitanza. Alla fine, per il suo ruolo di tramite, Nicosia ha rimediato una condanna a 15 anni in appello.

Ma l’elenco dei messaggeri è lungo. Un agente in servizio nel carcere di Agrigento, in un colloquio telefonico tra il boss ergastolano Giuseppe Falsone, ex capo della mafia agrigentina, e il suo avvocato, avrebbe consentito al legale di portare in carcere lo smartphone e di usarlo rispondendo alle chiamate ricevute nel corso dell’incontro. Nel supercarcere di Parma, invece, di cellulari ne aveva due il boss Giuseppe Gallo, noto negli ambienti della camorra napoletana come «Peppe ’o pazzo» da Boscotrecase (Napoli). Tanto che in una riunione riservata della Procura nazionale antimafia, il 19 dicembre 2019, i capi di 25 Procure della Repubblica si sono interrogati a lungo sulla possibilità di schermare le linee dei reparti di 41-bis.

Nello stesso incontro si affrontarono altre due questioni allarmanti: quella che è stata definita «il problema del medesimo difensore per un numero rilevantissimo di detenuti al 41-bis» e le inspiegabili disfunzioni nelle registrazioni dei colloqui. Con uno stranissimo linguaggio dei segni i boss sono riusciti a far arrivare le loro istruzioni. Il detenuto porta con sé una bottiglietta d’acqua e fissa uno dei parenti dall’altro lato del vetro. Parla del più e del meno, di come stanno i figli o gli anziani genitori. Intanto, però, con un dito indica le lettere sull’etichetta della bottiglia e compone le parole che non può pronunciare. I suoi leggono e memorizzano. E quando tornano a casa riportano i messaggi agli affiliati. L’hanno definito il «codice Morse della bottiglia». Domenico Belforte, boss di Marcianise, sarebbe addirittura riuscito a «coordinare le estorsioni», scrisse il pm, «attraverso un linguaggio in codice cui fa ricorso durante i colloqui mensili con i suoi familiari». Spesso, invece, i magistrati si sono concentrati sugli avvocati. Il boss Francesco Bidognetti, capoclan dei Casalesi, per esempio, prima delle sue figlie si sarebbe servito proprio dei suoi legali (poi entrambi condannati) per continuare a gestire il clan. E di casi clamorosi ce ne sono tanti.

Il pentito di Ercolano Salvatore Cefariello riferì nel corso di un processo che si trovava detenuto al regime di 41-bis nel penitenziario di massima sicurezza di Parma e nella cella di fronte alla sua c’era Pasquale Gionta, boss di Torre Annunziata: «Benché fossimo entrambi ristretti al 41-bis» ha raccontato il pentito «succedeva a volte che riuscissimo a comunicare tra di noi durante gli spostamenti». E i messaggi circolavano. «Purtroppo questo regime detentivo, rispetto a quando è stato istituito, è stato svuotato di contenuti» spiega il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri, che punta il dito contro «circolari, direttive interpretative sempre più a maglie larghe da parte dei direttori del Dap (il Dipartimento di amministrazione penitenziaria, ndr) che si sono succeduti. è sempre meno duro». E ora si è riacceso il dibattito sul 41-bis per smantellarlo.

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