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Zero a zero palla al centro

Zero a zero palla al centro

Corsi, ricorsi e controricorsi… La ricerca di un punto di consistenza per una forza alternativa a destra e sinistra è ormai spasmodica (le amministrative di primavera incombono). Ecco allora i gran rifiuti di Calenda e le manovre di Toti e Carfagna.
Renzi che cerca di portare a casa voti da destra e Letta che, da ancora più lontano, osserva. Casini, da par suo, prova fascino per l’idea federativa (a patto che lo veda protagonista). Ma c’è sempre l’ipoteca chiamata Berlusconi


«La parola centro mi fa schifo». Con il distratto disprezzo da dandy del pensiero debole, Carlo Calenda ha bucato con uno spillone il gommone di salvataggio dei naufraghi della politica, costringendoli a rimanere sulla spiaggia di quella terra di mezzo dove da 20 anni si contano più partiti che elettori. Clemente Mastella, che aveva gonfiato il canotto ed era pronto a salpare, ci è rimasto male e gli ha dato del «pariolino».

Fine degli amorosi sensi, minacce di querela, ripassare. È sempre così; dopo uno snodo parlamentare decisivo, durante il quale i moderati diventano «l’ago della bilancia», il sogno collettivo post democristiano è costruire la casa comune dei centristi. Salvo scoprire qualche tempo dopo che nessuno si è accollato neppure la fatica dello scavo.

Era accaduto l’anno scorso durante il crollo del governo Conte ter, è ricapitato un mese fa al termine della partita per il Quirinale. Quando le grandi coalizioni scricchiolano, spunta sulle fronti di alcuni leader e colonnelli (il Mastella medesimo, Pier Ferdinando Casini, Matteo Renzi, Mara Carfagna, Renato Brunetta, Giovanni Toti, perfino Enrico Letta) una voglia di centro collettivo come se fosse di fragola, qualcosa di istintivo e insensato dopo le sistematiche bocciature elettorali di un’area desertificata nell’era di Tangentopoli. Le formule si sprecano: fusioni a freddo, federazioni, unioni tribali. Ci provano tutti, pure il riottoso Calenda: Azione è pur sempre legata a doppio filo a +Europa di Emma Bonino. La colla serve anche per sopravvivere e non diventare insignificanti finché dura il maggioritario.

Ma davvero la maggioranza degli italiani sta al centro? Il riassunto migliore della grande illusione lo fa Gianfranco Rotondi che presidia l’aiuola da sempre: «Il centro dei sette nani non esiste. Di federazioni o cose del genere ne abbiamo fatte dieci negli anni e la cifra elettorale è sempre stata preceduta da uno zero e da una virgola». Eppure ci ritentano, la sindrome da centro della Terra è sempre in agguato. Questa volta le mosse sono alla luce del sole, riguardano tutti gli schieramenti e hanno due obiettivi: un posizionamento favorevole in vista delle amministrative del 2022 con 900 comuni al voto e la riscossione crediti per le politiche del 2023, quando il parlamento perderà 345 fra deputati e senatori.

La più bulimica è la Balena rosa. Il Pd lettiano lavora per costruire il famigerato «campo largo» con i cosiddetti dialoganti: Luca Lotti, leader di Base riformista (gli ex renziani) e Dario Franceschini, condottiero dei cattodem. L’obiettivo è attirare i pesci piccoli, nel tentativo di spostare il baricentro meno a sinistra, lasciar penzolare fuori dal finestrino i tardomarxisti di Leu e coinvolgere nelle alleanze elettorali i centrosinistri naturali Bonino e Calenda, arrivati al 5% nei sondaggi. Quest’ultimo ha posto come sempre una condizione irrinunciabile: «Faremo fronte comune con il Pd ma tenendo fuori sovranismi e populismi. Quindi mai con i grillini, un movimento destinato a sfaldarsi».

Per quest’area il punto d’arrivo è la maggioranza Ursula, un Ulivo 3.0 (non per niente la denominazione arriva da Romano Prodi), l’estemporanea coalizione che nel luglio 2019 elesse la baronessa Ursula von der Leyen presidente della Commissione europea. L’equivoco è irrisolto perché oggi Letta, soprattutto al Sud, ha più bisogno dei voti del Movimento 5 Stelle che di quelli (residuali) dei centristi. E non avrà mai quelli di Forza Italia. Il gioco dei «due forni» è molto complicato; il silenzio piddino su gasdotto Tap e Bonus 110% per non irritare gli alleati pentastellati è un segnale di evidente imbarazzo. Senza contare il rischio di erosione consensi perché anche Giuseppe Conte, nel caso di implosione grillina, potrebbe pretendere voti e posti sulla scialuppa per il suo partitino eternamente sullo sfondo. Ovviamente piazzato fra Pd e centrini.

Il centro di gravità permanente è un obbligo per Matteo Renzi; con Italia Viva piantata al 3% non ha alternative. Ma il senatore-conferenziere va a cercare gli alleati lontano dal Pd, con cui i rapporti rimangono improntati a una sana diffidenza. Dopo avere litigato sul candidato per Roma, sull’alleanza alle suppletive e dopo aver fatto volare gli stracci sulla Giustizia – quello di Letta è pur sempre il partito delle procure -, il Superbullo è interessato a convivere sotto lo stesso tetto dei centristi in arrivo da destra, per esempio Toti.

Lo ha dimostrato dando vita alla federazione Italia al centro, che per ora si autodefinisce «un patto di consultazione per iniziative comuni» al quale aderisce pure Mastella con il suo cespuglio avellinese Noi campani, pittoricamente definito «uno strategico presidio del Sud». È la calamita della storia politica mastelliana: «Quando sento odor di centro, che per me è piacevole come quello delle braciole, vado ad annusare più da vicino».

C’è un problema. Quello spazio non è deserto, non somiglia a una città vuota di Giorgio De Chirico. Lì c’è già Silvio Berlusconi. Hai detto niente. «Il centro sono io»; è bastato che il Cavaliere pronunciasse questa frase a far sussultare di nuovo la galassia in doppiopetto Caraceni. E a far riporre nel cassetto spostamenti progressivi in allontanamento di colonnelli forzisti come Brunetta e Carfagna, più a loro agio nella maggioranza Ursula che nel centro-destra, con il trattino che non unisce ma stacca. Saldamente ancorati dentro la coalizione rimangono il sindaco di Venezia Luigi Brugnaro (che ha le chiavi della cassaforte di Cambiamo) e i cattolici Maurizio Lupi e Lorenzo Cesa.

Nessuno ha la forza di mettere in discussione la leadership di Berlusconi, che ha ribadito: «L’orizzonte politico non cambia, noi ci poniamo saldamente nel centro-destra e rappresentiamo l’ala moderata senza la quale non si va da nessuna parte. Sono favorevole a tutto ciò che può riunire i moderati nel solco del Ppe». Poi la stoccata a chi pensa di scivolare lontano da casa o di farsi colonizzare dal papa straniero in arrivo da sinistra: «La storia di Renzi è diversa dalla nostra, un giorno forse deciderà dove vuole approdare». È bastata questa uscita per frenare ogni smottamento e per far rientrare le ambizioni di estemporanei conducadores di quel centro liquido che non ha mai argini.

Le amministrative di primavera possono diventare un interessante laboratorio politico e già sono iniziate le grandi manovre. Per esempio a Palermo dove l’ex rettore Roberto Lagalla (Udc) attira i consensi di Forza Italia, ma anche di Toti, Mastella, Salvini, piddini riformisti e grillini governisti. Renzi punta su Davide Faraone ma è pronto a trattare come sempre. Sarebbe una maggioranza Draghi, sorprendente e alla lunga indigesta senza un Supermario a dirigere l’orchestra.

Di sicuro, a capo di un simile «accrocchio» servirebbe un federatore. È il sogno di Casini, tornato sulle prime pagine nella confusa partita per il Quirinale, in pole position per una notte, prima della doccia fredda a opera di Salvini, dei grillini e di mezzo Pd. Pierfurby prova a capitalizzare l’immagine rinnovata, la sua recente visita ad Arcore non è stata solo cortesia. Ecco un altro potenziale leader di quello strano centro che guarda a sinistra pensando di pescare voti a destra. E che è pronto a ridividersi su tutto, in primis su chi comanda. «Il progetto di Renzi e Toti non è la mia tazza di tè», ha liquidato lo scenario Casini prefigurando il destino di sempre: come al Gioco dell’Oca si torna sempre alla casella iniziale. Zero a zero, palla al centro.

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