C’è una novità importante nel processo per l’incauto (e salato) acquisto di un edificio, a Londra, da parte della Santa Sede. È stata accettata la richiesta fatta da un imputato per rendere pubblici i messaggi tra i vertici delle gerarchie ecclesiastiche sulla vicenda. Uno scambio che, forse, può risultare imbarazzante.
Era dai tempi di Enrico VIII che l’Inghilterra e il Papa non si scontravano in maniera così dura e plateale. Stavolta però non di dispute teologiche si tratta ma di materialissino denaro. Che, per alcuni, è pur sempre una forma di religione. Il terreno della contesa è il processo sull’investimento capestro che la Santa sede avrebbe realizzato, sborsando 145 milioni di sterline, per acquistare un ex magazzino di Harrods in Sloane Avenue 60, nell’esclusivo quartiere londinese di Chelsea, al fine di ricavarne una serie di appartamenti di lusso.
Alla sbarra, davanti al tribunale vaticano, sono finiti il cardinale Angelo Becciu, ex prefetto della Congregazione delle cause dei santi e già sostituto per gli Affari generali della segreteria di Stato, e altri nove imputati che ora rischiano pene complessive per oltre 73 anni di carcere. Tra questi il finanziere britannico Raffaele Mincione, accusato dal promotore di giustizia vaticano Alessandro Diddi di aver gonfiato il prezzo dell’immobile prima di cederlo alla Chiesa mantenendone però il controllo attraverso una complessa manovra sulle azioni del suo fondo di gestione d’accordo con il broker Gianluigi Torzi (pure lui sott’inchiesta). Ipotesi fermamente respinta dall’uomo d’affari inglese (ma nato a Pomezia, sul litorale romano) che ha deciso di passare al contrattacco citando il Vaticano per danni d’immagine davanti all’Alta corte di giustizia di Londra. L’offensiva ha portato già un importante risultato. Dopo un iniziale rigetto da parte dei magistrati di primo grado, la Santa sede dovrà infatti esibire in appello, proprio come richiesto da Mincione, i messaggi WhatsApp, Signal e Telegram oltre alle mail crittografate che si sono scambiati l’arcivescovo Edgar Peña Parra, successore di Becciu agli Affari generali, e il cardinale Pietro Parolin, segretario di Stato. È la prima volta che il Vaticano, trascinato in giudizio, è costretto dalla legge (degli uomini) a rompere il muro di riservatezza e di mistero che avvolge le sue mosse.
Gli avvocati del Pontefice hanno tentato inutilmente di proteggere le comunicazioni appellandosi al «segreto pontificio», l’equivalente del segreto di Stato delle altre nazioni, e spiegando che i due prelati discutevano di questioni politiche di «alto livello» e non certo dei bonifici per accaparrarsi l’ex magazzino di Harrods. Una ricostruzione che non ha tuttavia convinto il giudice Dave Foxton (che ha trattato anche i procedimenti sui derivati finanziari venduti dalle banche inglesi ai Comuni italiani e la truffa da 30 milioni di dollari del broker Massimo Bochicchio ai danni dell’allenatore di calcio Antonio Conte) che ha quindi deciso che tutto il materiale utile alla causa dev’essere portato all’attenzione dei parrucconi inglesi, comprese le informazioni top secret custodite nei cellulari della segreteria di Stato.
Secondo Mincione, infatti, il Vaticano, nel processo celebrato tra le Mura leonine, non avrebbe dimostrato in maniera chiara né le perdite lamentate sull’investimento londinese né il coinvolgimento fraudolento dello stesso businessman visto che le perizie di agenzie indipendenti avrebbero confermato la stima dell’immobile. E quei messaggi segreti, scambiati tra Peña Parra e Parolin, potrebbero a suo dire dimostrarlo. O quantomeno allontanare da lui i sospetti di aver fatto bruciare al vicario di Cristo sulla Terra un centinaio di milioni di sterline, oltre 115 milioni di euro. Al centro dell’inchiesta vaticana non c’è solo il chiacchierato edificio di Chelsea ma svariati impieghi finanziari ad alto rischio, e rivelatisi in ultima istanza fallimentari, messi in atto dalla segreteria di Stato nel decennio scorso, quando nella stanza dei bottoni sedeva appunto Angelo Becciu. Molti dei quali, come Sloane Avenue, pagati con i soldi dell’Obolo di San Pietro, la riserva finanziaria del Papa destinata ad aiutare i più bisognosi. «Operazioni sconsiderate» le ha definite il pubblico ministero Diddi, nel corso della sua requisitoria, di cui Becciu era alla «regia». Come il mezzo milione di euro versato sui conti della signora Cecilia Marogna, sedicente «analista geopolitica» ma in realtà «amica di Becciu», per pagare il riscatto e liberare una suora rapita dai miliziani islamici in Mali, che invece è stato dilapidato in oggetti di lusso e vacanze a cinque stelle in giro tra Italia ed Europa. Ricchezze ingiustificate che la Marogna, peraltro, aveva ingenuamente esibito sui propri profili social. O come le donazioni a cinque zeri transitate dalla Caritas di Ozieri, in Sardegna, e finite a una coop riconducibile al fratello dell’arcivescovo.
Nel corso delle ultime udienze, a Roma, la pubblica accusa ha depositato una lunga e articolata perizia alla base della richiesta di risarcimento danni a favore del Vaticano quantificata in oltre 138 milioni di euro. Una stima che è il risultato della media dei costi da sostenere per «una campagna reputazionale mirata a riabilitare l’onore intaccato dai reati commessi dagli esponenti dell’istituzione». Campagna che, si legge nel documento, «dovrebbe basarsi sula divulgazione delle fasi del processo durante il quale non è mai stato messo in dubbio che la segreteria di Stato, deputata a gestire le risorse, tra cui l’obolo, è parte lesa. Vittima della condotta spregiudicata di chi ha sperperato milioni in operazioni rischiose e affidate a consulenti che avevano di mira soltanto i loro interessi».
Seppur spogliato dei poteri cardinalizi da Bergoglio, Becciu si è difeso strenuamente davanti ai giudici. «La mia innocenza dimostrata nel processo è sotto gli occhi di tutti», ha detto, aggiungendo con tono solenne: «Ovviamente, la giustizia divina ci sovrasta e con essa tutti dovremo fare i conti, prima o poi. E respingo con sdegno e ribrezzo le frasi insinuanti e offensive sulla mia vita sacerdotale e di servitore del Papa». Da oltremanica potrebbero presto arrivare carte inaspettate in grado di sconvolgere quello che tutti, nella Chiesa, definiscono il «processo del secolo». Aprendo uno scontro diplomatico dagli esiti imprevedibili tra Londra e Roma e rivelando quel che nessun orecchio indiscreto ha udito nei corridoi affrescati dai genî rinascimentali. Dio salvi il re. Ma anche il Vaticano.
