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L’uomo dietro la Libia

L’uomo dietro la Libia

Si chiama Siddiq al Kabir, è il governatore della Banca centrale del Paese nordafricano, ma per molti ne è il sovrano «de facto», l’ultimo pilastro a tenere in piedi quella realtà complessa e ad alta conflittualità altrimenti destinata al collasso definitivo. Una figura di riferimento per il Fondo monetario internazionale, come per i governi stranieri e i suoi connazionali. Ma rimasta sempre nell’ombra.


Incontra le delegazioni francesi, che si dicono «pronte a riprendere le loro attività economiche in Libia». Vede quelle italiane per riannodare i fili tra le camere di commercio che operano tra le due sponde del Mediterraneo. Vola a Washington per pranzare con i vertici del Fondo monetario internazionale. Tiene riunioni fiume sul bilancio dello Stato libico e concorre a decidere le priorità di spesa pubblica per l’esercizio 2023. Inoltre, si occupa di gestire in prima persona le richieste del premier Abdel Hamid Dabaiba, come quella sui «saldi dei conti delle ambasciate e delle missioni diplomatiche», che a quanto pare non tornano. Insomma, non c’è dossier o questione cruciale che non passi per la sua scrivania. Questo perché il governatore della Banca centrale della Libia, Siddiq al Kabir, è diventato da tempo il vero e unico «king maker» di questo lembo di terra, ancora diviso per bande e ormai bicefalo, con una testa che parla per Tripoli e un’altra che riferisce a Bengasi.

Ma Al Kabir, uomo esperto e prudente, resta sottotraccia. Capace di fare squadra e sintesi circa i desiderata che provengono dalle tante anime di cui si compone la Libia post Gheddafi, è da molti considerato l’ultimo pilastro che tiene insieme il Paese (anche se per i suoi avversari starebbe perpetuando una crisi nazionale) e la sola garanzia a cui ancora si affidano le cancellerie di mezzo mondo. Per tutti, Kabir è la figura di riferimento sin da quando occupa una poltrona determinante e detiene un potere così vasto da renderlo un sovrano de facto.

Di certo, rappresenta l’ultimo dei mandarini di Stato libici, essendo il dirigente pubblico che tiene in mano le redini dell’istituto più importante del Paese, ovvero la Banca centrale di Libia: quell’imponente edificio rosso bruno di epoca fascista dove sono custodite le più grandi riserve di valuta estera dell’Africa, dove passano miliardi di dollari di proventi del commercio petrolifero, e dove risiede il vero centro di comando dell’intera economia petrolifera libica. Siddiq Kabir sembrerebbe più un burocrate di medio rango che non un plutocrate, con uno stile dimesso, un atteggiamento saggio, lo sguardo guardingo su un volto all’apparenza rassicurante di un settantenne in linea con la sua età. Eppure, nonostante il suo basso profilo, il futuro dell’economia libica – l’unico aspetto che tiene ancora insieme le parti del Paese – può dipendere proprio da lui.

Lo scorso ottobre, quando Al-Kabir ha discusso con la presidente della Banca centrale europea Christine Lagarde e i governatori delle banche centrali del Medio Oriente e dell’Asia centrale dell’impatto delle condizioni finanziarie globali sui Paesi della regione, si è capito meglio la caratura del personaggio. Di certo, hanno giovato la sua educazione americana e l’inglese fluente, ma soprattutto è la certezza che Kabir opera nel contesto della legge ad avergli permesso di diventare un punto di riferimento. E lo è contro ogni previsione dal 2011, quando ha assunto la carica di governatore, sopravvivendo a un decennio di turbolenze, guerre civili, tentativi più o meno violenti di destituirlo e sei primi ministri che, nel frattempo, si sono avvicendati alla guida del più sghembo degli Stati del Nordafrica.

Anche se la guerra civile proprio a partire dall’anno del suo insediamento ha visto il Paese prima sgretolarsi e poi dividersi tra governi rivali e leader di milizie, che hanno ora depredato ora interrotto ora gestito la produzione di petrolio per periodi di tempo prolungati, sotto la sua guida la Banca centrale è rimasta salda. Per questo l’incontro che si è svolto lo scorso ottobre presso la sede del Fondo monetario internazionale, a Washington D.C., è stato il suggello della sua carriera, uno di quegli appuntamenti cosiddetti «di alto profilo». La discussione, infatti, verteva sulle politiche macroeconomiche e fiscali, e sul modo in cui possono essere calibrate e coordinate per affrontare le sfide che attendono i mercati energetici sconvolti dal conflitto in Ucraina, nonché sull’aumento dell’efficacia del supporto tecnico del Fmi circa i sistemi di controllo. E il fatto che la Libia torni a esprimere una posizione è un segnale distensivo, tanto per i governi quanto per i mercati che hanno a che fare con il Paese. Quando l’analista tedesco Wolfram Lacher, autore di Libya’s Fragmentation, lo ha incontrato nel 2018, Kabir gli è apparso distaccato e consapevole: «Il nostro governo è debole. Continuano ad aggiungere persone a libro paga, poi vengono da noi chiedendoci di coprire questi stipendi» ha detto commentando le decisioni della politica di assumere personale pubblico per rispondere al bisogno continuo di lavoro e per ripartire favori tra quelle milizie che minacciano ogni giorno la pace sociale, anche fisicamente.

È dalla Banca centrale, dalla sua nobile sede sul lungomare di Tripoli, che alla fine partono i pagamenti di quegli appannaggi. E dal 2014 questa decisione spetta solo a Kabir. Che a volte li eroga e altre volte li trattiene, anche per diversi mesi. Quell’anno, infatti, vi fu la scissione della Banca centrale, con una parte che continuava a rispondere a Tripoli e un’altra che, grazie al vice di Kabir, Ali Hebri, si era trasferita nella Libia orientale. Quando Hebri iniziò a istituire una Banca centrale parallela a est, Kabir, che era rimasto a Malta allo scoppio della insurrezione, tornò a Tripoli e mantenendo il controllo dei codici Swift (con cui le banche si identificano a vicenda) mostrò lealtà e continuità agli occhi degli osservatori internazionali, i quali da allora lo considerano il legittimo capo. «È stato questo riconoscimento internazionale che ha permesso a Kabir di prevalere su Hebri» puntualizza Lacher. Kabir fu sostenuto dalla Federal Reserve, dal Dipartimento del Tesoro e dal Fmi, secondo quanto ha riferito nel 2018 Martin Kobler, l’inviato speciale delle Nazioni Unite in Libia dal 2015 al 2017.

«Poiché la scissione aveva reso impossibile il normale processo di definizione del budget, Kabir si trasformò nell’attore centrale in tutti i futuri negoziati sulla spesa pubblica». E tale è rimasto. Mantenendo l’ordine e le parvenze di uno Stato non fallito, nonostante le lotte intestine. Al punto che Tripoli ha continuato sempre a pagare gli stipendi ai dipendenti statali in tutta la Libia, anche a quei miliziani che da Bengasi continuavano a fomentare la guerra civile (tutti i gruppi armati libici che si sono formati dalla rivoluzione del 2011, infatti, hanno operato ufficialmente come unità dei ministeri della Difesa o degli Interni). Oggi, dunque, per capire dove va la Libia non è necessario leggere le analisi di intelligence, né interrogare fonti interne alla Tripolitania e Cirenaica. E neanche seguire le mosse del premier in carica Dabaiba. Per sapere della Libia, c’è una sola persona a cui è meglio chiedere: si chiama Siddiq al Kabir.

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