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Turchia, la doppia crisi del Sultano

Turchia, la doppia crisi del Sultano

Alle prese con il coronavirus (reso più pericoloso dalla fragilità del sistema sanitario) e con un’economia in panne, il premier Recep Tayyip Erdogan cerca di sfruttare l’emergenza per riguadagnare consensi. E schiacciare gli oppositori.


Doveva durare al massimo tre settimane, fino a fine febbraio il popolo turco pensava di essere persino immune dal contagio. E invece Covid-19 è arrivato anche nella Mezzaluna e rischia di fare più danni che altrove, anche per una gestione da parte delle autorità che presenta più ombre che luci.

Sul banco degli imputati, è rimasto il Ministro dell’Interno, Suleyman Soylu, anche se lui a metà aprile ha rassegnato le dimissioni. Ma il presidente, Recep Tayyip Erdogan, le ha respinte, segno che non vuole accollarsi il peso di un contagio che non ha ancora toccato il suo picco e che potrebbe costare molto. I contagiati al momento sono 70.000, i morti 1.900. Nel primo fine settimana di lockdown sono andati in scena momenti di vera e propria isteria collettiva, con migliaia di persone che hanno preso d’assalto i supermercati e le autostrade per allontanarsi dalle città più popolose.

A Istanbul non ci vogliono ancora credere. Gli abitanti stanno in casa, proprio nella stagione in cui diventa più bella e si avvicina il «tempo dei tulipani», con milioni di bulbi piantati nella città. Piazza Taksim e l’Istiklal Caddesi, cuori pulsanti della megalopoli sul Bosforo, sono deserte come quando sono transennate a causa di una manifestazione. Ma questa volta, Erdogan teme un nemico invisibile, che per molti ha sottovalutato troppo e non ha combattuto efficacemente quand’ha iniziato a manifestarsi.

Il trend di contagio turco è uno dei più elevati nell’area del Mediterraneo. Gli epidemiologi hanno supposto che Covid-19 sia penetrato nei territori della Mezzaluna da almeno tre parti: dai Balcani, dall’Iraq e dal Caucaso. Per gli specialisti, per un Paese di transito come la Turchia, la cui posizione geografica è un vero e proprio crocevia di rotte commerciali, pensare di poter rimanere in qualche immune dal contagio era pura follia.

Gli ospedali, pubblici e privati, stanno affrontando l’emergenza e, secondo le autorità, la situazione è sotto controllo. Le informazioni che arrivano dai centri di cura sul territorio nazionale, però, sono ben diverse. In tanti ospedali del Paese, anche a Istanbul, è stata denunciata la mancanza di guanti e mascherine per il personale sanitario. «Molte strutture si sono fatte trovare completamente impreparate da questa emergenza» ha rivelato a Panorama un medico che lavora in uno dei maggiori ospedali di Istanbul e che ha chiesto l’anonimato. «La fornitura di guanti e mascherine andava pianificata anzitempo, vista soprattutto la situazione internazionale, si rischia letteralmente di non riuscire a controllare il contagio».

La situazione è talmente drammatica, che su Twitter è partita anche la campagna #sağlıkcılarmalzemeistiyor, che in turco suona come «i sanitari vogliono i materiali per lavorare». Nel Sud-Est del Paese è anche peggio. Qui la presenza della sanità privata, uno dei business di maggiore successo dell’era Erdogan, è più limitata e le strutture pubbliche meno attrezzate. I malati, qui, si potrebbero moltiplicarsi in modo esponenziale.

Il presidente, all’inizio, ha detto che sarebbe finito tutto in due, massimo tre settimane. Ma l’emergenza sta dilagando e adesso anche lui deve correre ai ripari per evitare una perdita di consensi in un momento in cui sono già bassi. Per questo ha annunciato platealmente di aver donato sette mensilità del suo stipendio, circa 49.000 euro, al fondo di emergenza nazionale. Due vecchi aeroporti di Istanbul sono stati convertiti in ospedali. Il ministro della Salute, Fahrettin Koca, a inizio aprile, quindi a due settimane dall’inizio dell’emergenza, ha diramato una circolare che vieta di entrare nelle strutture sanitarie senza le dovute protezioni. Ma sembra ancora troppo poco.

L’economia trema, proprio in questo 2020, che per Ankara doveva essere l’anno del riscatto. Il ministro delle Finanze, nonché genero del Capo di Stato, Berat Albayrak, ha varato una serie di misure di stimolo immediato delle imprese, assegni per chi è rimasto senza lavoro fino a tre mensilità, posticipazione delle scadenze fiscali. Ma rischiano di rivelarsi tutti provvedimenti insufficienti, in grado di destare anche polemiche, se si conta che il budget destinato all’emergenza coronavirus al momento è di circa 15 miliardi di dollari, contro i 40 spesi per la guerra in Siria. Tutti i principali partner commerciali della Turchia, poi, sono alle prese con coronavirus, quindi con situazioni di chiusura totale o parziale delle aziende, con tutte le ricadute del caso sugli scambi commerciali. Fra questi, ci sono molti Paesi europei, non a caso quasi il 50% dell’export della Mezzaluna è ancora diretto nel Vecchio continente.

C’è poi il problema, e il dramma, dei migranti. La rotta anatolica, che ogni anno porta sul territorio turco migliaia di persone dall’Iran, è ancora attiva, con tutte le conseguenze sul numero potenziale dei contagi, vista diffusione della malattia nella repubblica islamica. Si stanziano prima nella regione di Van, una delle più povere del Paese, per poi muoversi nelle altre province, spesso cercando di mischiarsi ai rifugiati siriani. Sul confine della Grecia, a fine marzo, erano ancora ammassati in migliaia, con la speranza di entrare in Unione Europea, dopo che Ankara aveva aperto le frontiere per minacciare Bruxelles e cercare di farla intervenire nella guerra contro Bashar al Assad nella zona di Idlib. Sono stati fatti sgomberare tutti e caricati su autobus perché il virus è arrivato anche lì. Ufficialmente, sono in centri per migranti in quarantena e sotto controllo medico. La maggior parte degli oltre tre milioni e mezzo di rifugiati che la Turchia ospita sul suo territorio, però, vive per strada, senza protezione né assistenza di alcun tipo e quindi anche più esposti al virus e meno tutelati dalle strutture sanitarie.

Un quadro poco rassicurante, eppure Erdogan anche in una situazione del genere non ha perso l’occasione per buttarla in politica. Nel suo discorso durante il quale il capo di Stato ha illustrato i provvedimenti per contrastare Covid-19, ha approfittato per lanciare messaggi in chiave anti occidentale e compiacere la parte più islamo-conservatrice del suo elettorato. «È chiaro» ha detto «che dopo l’epidemia che stiamo vivendo, nulla al mondo sarà uguale. L’era di coloro che hanno istituito un falso sistema di welfare sulle spalle di altri Paesi e persone sta finendo. È stato ancora una volta dimostrato che l’economia non consiste solo di denaro, Borsa, interessi, strumenti speculativi, ma la cosa principale è una produzione sufficiente e una distribuzione equa».

Grazie all’emergenza coronavirus, sono stati commissariati altri otto comuni nel Sud-Est governati dal partito curdo Hdp e che erano stati eletti alle elezioni amministrative del marzo 2019. Cinque sindaci sono finiti in manette, dopo che la loro casa è stata perquisita dalla polizia, così come alcune sedi della formazione politica. Situazione critica anche nelle carceri, dove i detenuti totali sono oltre 300.000, a fronte di una capienza massima che può reggerne appena la metà. Il governo ha fatto uscire circa 90.000 condannati per reati minori, ma le persone accusate di tentato golpe e sostegno a organizzazione terroristica, rimangono dentro. Fra questi ci sono decine di giornalisti e il leader del partito curdo, Selahattin Demirtaş.

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