Il sostegno militare tributato al presidente libico Fayez al-Sarraj mira al controllo strategico delle risorse energetiche nel Paese.
Ma l’espansionismo inarrestabile del «sultano» verso Occidente non si limita al petrolio. Tra i suoi obiettivi c’è quello di rafforzare i Fratelli musulmani e di penetrare in Europa, dove già vivono tre milioni di turchi.
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Il 2 gennaio il premier israeliano Benjamin Netanyahu, quello greco Kyriakos Mitsotakis e il presidente cipriota Nikos Anastasiadis hanno firmato l’accordo per un mega gasdotto sottomarino, l’EastMed, che dal Mediterraneo orientale dovrebbe arrivare fino in Italia. Lo stesso giorno, non a caso anticipando la data del voto, il parlamento di Ankara ha dato il via libera al contingente di 5 mila uomini da inviare in Libia, come chiesto dal presidente turco Recep Tayyip Erdogan. La guerra vera s’intreccia con quella per il controllo delle risorse energetiche sul campo di battaglia del Mediterraneo, dove l’Italia rischia di rimanere fuori gioco.
Non a caso, il leader turco ha messo le mani avanti, dichiarando il 24 gennaio: «Se non verrà raggiunta una pace in Libia, il caos si estenderà a tutta la regione del Mediterraneo». «Siamo di fronte a un neo ottomanesimo, che con la forza militare punta a obiettivi strategici, compresa la spartizione delle risorse energetiche e il rafforzamento dei Fratelli musulmani» dice a Panorama l’ex ministro degli Esteri Giulio Terzi. «Erdogan sta compiendo un percorso che ha radici profonde e non si limita alla Libia, ma riguarda anche Somalia e Balcani e avviene quasi sempre in accordo con i russi. Una chiara minaccia per l’Europa».
(a cura di Claudio Laurenti)
Alla guerra del gas
L’espressione popolare di allarme «mamma li turchi» è più attuale che mai. Il 27 novembre i governi di Ankara e Tripoli hanno firmato due memorandum. Il primo militare, per difendere l’esecutivo di Fayez al-Sarraj assediato dallo scorso aprile a Tripoli dalle truppe del generale Khalifa Haftar. Il secondo, ottenuto in cambio dalla Turchia, «sulla definizione della giurisdizione marittima nel Mediterraneo». In pratica, la nascita di una Zona economica esclusiva (Zee) che si estende come un cuneo dalla costa turca a quella della Cirenaica, in realtà controllata da Haftar. L’articolo 4, comma 2, prevede che «nel caso dell’esistenza di risorse naturali (…) le parti possono concludere accordi per sfruttare congiuntamente tali risorse».
Peccato che la Zee lambisca Creta, facendo infuriare i greci, nemici giurati della Turchia. «La Zona economica esclusiva turco-libica taglia in due il Mediterraneo creando potenziali problemi geopolitici sulla libertà di navigazione e la posa di gasdotti» ha scritto su Analisi Difesa l’ex ammiraglio Fabio Caffio. A cominciare dall’EastMed voluto da Israele, Grecia e Cipro, che forse non vedrà mai la luce per i costi enormi. Erdogan sta già facendo prospezioni petrolifere vicino a Cipro, in aree di licenze concesse a Eni e Total. La parte meridionale di Cipro non occupata dal 1974 dai turchi, che fa parte dell’Unione europea, ha bollato la Turchia come «Stato pirata». Il 16 gennaio si sono riuniti al Cairo i rappresentanti politici e delle grandi imprese di Egitto, Grecia, Cipro, Israele, Giordania, Autorità palestinese e Italia per l’East Med Gas Forum. «L’obiettivo è creare un hub del gas sul suolo egiziano. Gas liquefatto trasportato via nave cisterna e non pipeline per farlo arrivare al mercato europeo» spiega Michelangelo Celozzi, da 30 anni nel mondo dell’energia. «È la vera paura della Turchia. Il progetto metterebbe in rete tutti i giacimenti di gas del Mediterraneo orientale collegati via rete sottomarina» osserva ancora Celozzi. «Erdogan è rimasto tagliato fuori, perciò mostra i muscoli in Libia e ha voluto il memorandum marittimo con Tripoli».
Il 17 gennaio, due giorni prima della sbandierata conferenza di Berlino sulla Libia – che ha partorito un topolino – i turchi dispiegavano i primi missili per la difesa antiaerea Hawk (Falco) Pip-3 all’aeroporto Mittiga di Tripoli, più volte bombardato da Khalifa Haftar. Droni armati prodotti dalla società del cognato di Erdogan sono stati venduti ai difensori della capitale libica. Via nave sono arrivati blindati, missili anticarro e munizioni in barba all’embargo Onu, come hanno fatto dall’altra parte della barricata Egitto, Emirati Arabi, Arabia Saudita e Giordania. «L’idea di riesumare la missione navale europea Sophia, che ha già fallito contro i trafficanti di esseri umani e sull’embargo alle armi, è ridicola. Gran parte delle forniture belliche non arrivano dal mare, ma con aerei da trasporto e via terra dall’Egitto» rivela una fonte militare italiana.
I turchi fanno spallucce all’embargo, come si legge all’articolo V del memorandum militare di 10 pagine fra Tripoli e Ankara, che permette «lo scambio di munizioni, sistemi d’arma, equipaggiamento militare, veicoli e rilevanti forniture (…) di materiale bellico». Al primo punto sono previsti «addestramento, consulenza, pianificazione e materiale di supporto» da parte della Turchia «per una forza di reazione rapida con responsabilità militare e di polizia» in Libia. Comando congiunto, «assegnazione di mezzi terrestri, navali e aerei, equipaggiamento, armi e basi» sono elencati nell’accordo. L’articolo IV permette interventi congiunti per garantire «la sicurezza dei confini terrestri, aerei e marittimi» oltre allo «scambio di informazioni di intelligence e cooperazione operativa» top secret.
Il patto di ferro di Erdogan con Tripoli è anche politico-religioso. La svolta filo turca è appoggiata da personaggi come il capo del Consiglio presidenziale di Tripoli, Khaled al-Mishri, dei Fratelli musulmani. Mario Arpino, ex capo di Stato maggiore della Difesa ride per non piangere: «Si può anche dire che 100 anni dopo la vittoria italiana in Libia contro l’impero ottomano un nuovo “sultano” è sbarcato a Tripoli, ma è colore». Secondo l’ex generale, «Erdogan persegue i suoi obiettivi. Il vero problema è l’Occidente imbelle per non parlare dell’Italia, che non ha una strategia. L’interesse nazionale sembra quasi un peccato mortale, ma dovremmo difenderlo in Libia, nei Balcani, nel Mediterraneo, dove i turchi avanzano assieme ai russi».
Quei «giannizzeri» siriani a Tripoli
Per ora sono arrivati ufficialmente a Tripoli 35 consiglieri militari turchi, ma fra corpi speciali, addetti alle batterie antiaeree e alla logistica saranno molti di più. Erdogan, pur minacciando lo spauracchio del contingente di 5 mila uomini, ha mandato avanti i «giannizzeri» siriani. I servizi turchi (Milli Istihbarat Teskilatı) li hanno reclutati fra le formazioni filo Ankara nelle zone curde spazzate via dalle operazioni della Mezzaluna in Siria e nell’ultima enclave dei ribelli anti Damasco a Idlib, infestata da jihadisti. L’intelligence ha pescato fra i gruppi armati turcomanni, dell’Esercito libero siriano e altre formazioni come la brigata Al-Moutasem, il Fronte del Levante, l’Esercito al-Nasr, la Divisione Hamza, che non disdegnano la guerra santa. Questi «giannizzeri» sarebbero pagati circa 1.500 dollari al mese e in caso di otterrebbero la cittadinanza turca. «In prima linea a Tripoli sono già diverse centinaia. Organizzano anche posti di blocco e a decine sono stati feriti o uccisi. Non è escluso che qualcuno cerchi di mollare tutto e partire per l’Italia coi barconi» rivela una fonte occidentale nella capitale. L’Osservatorio per i diritti umani con sede a Londra, vicino ai ribelli anti Assad, sostiene che «il numero di miliziani siriani in Libia sia salito a 2.600. Altri 1.790 sarebbero in Turchia per l’addestramento». Il 15 gennaio, all’Europarlamento, il re di Giordania Abdullah II si è chiesto: «Cosa succede se la Libia entra in una guerra globale e diventa la nuova Siria, ma ben più vicina al continente che voi chiamate casa?».
Gli altri fronti aperti da Ankara
Paolo Quercia, direttore del centro studi CeNASS, lancia l’allarme anche su altri fronti: «Da anni la Turchia ha avviato una politica basata su un perseguimento spregiudicato dell’interesse nazionale, dal Medio Oriente ai Balcani, al Corno d’Africa, alla Libia. Una politica che ha incrociato le mosse strategiche di Vladimir Putin negli stessi quadranti, producendo una collaborazione consolidata in Siria, che ha come obiettivo comune il revisionismo degli assetti geopolitici in un Mediterraneo post-occidentale».
A Mogadiscio i turchi hanno una base costata 50 milioni di dollari per addestrare l’esercito locale. Il 21 gennaio Erdogan ha annunciato l’invito del governo somalo per ricerche off shore di giacimenti di idrocarburi. La presenza decennale nel Corno d’Africa fa parte dello scontro geopolitico con gli Emirati Arabi e i sauditi, che si sta sviluppando anche in Libia. Trentamila soldati turchi presidiano la non riconosciuta Repubblica di Cipro del nord.
Il governo di Ankara prevede di riconoscere alla Bosnia Erzegovina 30 milioni di euro per l’acquisto di equipaggiamenti militari turchi. Erdogan considera i Balcani occidentali terreno fertile per una penetrazione verso l’Europa, dove vivono tre milioni di turchi, la metà in Germania. In Bosnia, Kosovo, Albania il governo turco ha investito costruendo infrastrutture ma anche moschee, e infiltrando discusse Ong coinvolte nel proselitismo islamico estremista. Erdogan si è recato più volte a Sarajevo arringando le folle, accolto sui social con messaggi d’altri tempi: «Benvenuto Sultano, protettore dei musulmani nel mondo, unico amico del nostro popolo nei Balcani».
Uno degli strateghi dell’espansionismo di Erdogan è l’ex generale Adnan Tanrıverdi che ha fondato Sadat, società di sicurezza operativa anche in Libia. L’8 gennaio ha dovuto dimettersi da consigliere del presidente turco per avere dichiarato che «Sadat stava aprendo la strada all’arrivo del Mahdi», una specie di Messia islamico. Tanrıverdi, attraverso il centro studi Assam, è l’ideologo della federazione di 61 Stati musulmani con capitale Istanbul, conosciuta come Asrica, combinazione di Asia e Africa. Sul sito di Assam si legge che l’unione dovrà rispettare la Sharia e «garantire che il mondo islamico sia visto di nuovo come una super potenza».
Il Mediterraneo al tempo di Suleimani
Panorama anticipa il saggio di Michelangelo Celozzi che uscirà nel numero di febbraio della rivista di geopolitica ed economia internazionale Il Nodo di Gordio dal titolo «Colonne d’Ercole. Voci dal Mediterraneo».
A metà novembre 2019 si verifica un evento nuovo, inatteso, inusuale e di grande rilevanza per comprendere l’intera strategia iraniana in Medio Oriente e le dinamiche geopolitiche in atto nel Mediterraneo.
The Intercept, un’organizzazione giornalistica indipendente operante a livello internazionale, entra in possesso in Iraq di un dossier, proveniente dal Ministry of Intelligence and Security, il MOIS Iraniano, l’equivalente del Mossad Israeliano, contenente rapporti riservati dell’intelligence iraniana su eventi che si sono svolti fra il 2014 e il 2015. (…)
Poche settimane dopo, alle prime ore del 3 gennaio 2020, il Generale Quasem Suleimani è rimasto ucciso durante un raid delle Forze armate statunitensi: un evento gestito dagli apparti di intelligence, di cui non conosceremo mai i dettagli. L’analisi di questi eventi ci consente una migliore comprensione delle dinamiche che caratterizzano tutto il Mediterraneo, oggi che il dossier siriano e quello libico si incrociano in modo preoccupante. (…)
Questa analisi, inizialmente rivolta al ruolo dell’energia, e del gas in particolare, per la stabilità e la sicurezza nel Mediterraneo, non ha potuto tuttavia prescindere dagli eventi più recenti di questi giorni, che hanno portato in primo piano il ruolo l’Iran e del generale Suleimani, ma anche i suoi rapporti con la Turchia, in una delle aree ormai più turbolente del pianeta, per la rottura degli equilibri geopolitici del secolo scorso ed il conseguente emergere di nuove tentazioni egemoniche.
Il dossier dei servizi segreti Iraniani
Fra la fine di ottobre e gli inizi di novembre 2019, The Intercept entra in possesso di un corposo dossier (700 pagine), contenente un archivio di informazioni del MOIS, il servizio segreto iraniano, relative al periodo tra la fine del 2014 ed il 2015. Un evento eccezionale che getta nuova luce sugli eventi in Medioriente: tutti i governi hanno dovuto fare i conti con fughe di notizie riservate, ma non l’Iran, dove le informazioni sono strettamente controllate e i servizi di sicurezza fortemente temuti. Fughe di notizie che non avvengono per caso. Esse offrono una descrizione dettagliata delle infiltrazioni iraniane negli affari iracheni e del ruolo di Suleimani.
In particolare, le notizie rivelano la vasta influenza di Teheran sull’Iraq, grazie alle spie iraniane infiltrate in ogni aspetto della vita politica, economica e religiosa dell’Iraq. Si può ora comprendere come e quanto l’Iran abbia assunto il controllo dell’Iraq dopo l’invasione americana nel 2003, trasformandolo nella porta di accesso dell’Iran al Mediterraneo, attraverso la geografia dell’area di influenza iraniana dal Golfo Persico al Mediterraneo.
Si apre uno squarcio anche sulla complessa politica interna iraniana, divisa in fazioni in competizione fra loro; non sappiamo quanto questa competizione abbia contribuito alla fuga di notizie, perché alcuni leader iraniani potrebbero aver avuto un interesse personale al contenimento del potere esercitato da altri leader, come il generale Suleimani.
Il dossier è composto da centinaia di rapporti e intercettazioni, realizzati principalmente tra la fine del 2014 e il 2015 dal MOIS, il cui ruolo era offuscato dall’organizzazione parallela di intelligence delle Guardie Rivoluzionarie, istituita come entità indipendente nel 2009 dall’Ayatollah Khamenei, il maggior sostenitore del generale Suleimani, con cui si era instaurato un rapporto molto forte.
L’Iran considera cruciale il ruolo delle Guardie rivoluzionarie per la sua sicurezza nazionale, e in particolare della Quds Force, la forza d’élite guidata da Suleimani, che ha fortemente influenzato le principali scelte politiche della Repubblica Islamica; secondo diversi consiglieri delle amministrazioni iraniane, attuali e passate, questo spiega perché la nomina degli ambasciatori iraniani nei Paesi del Medio Oriente fosse affidata ai ranghi più elevati delle Guardie. (…)
L’incontro segreto
Il Dossier del MOIS contiene un intero capitolo sugli incontri segreti fra la Quds Force iraniana e la Fratellanza musulmana, iniziati nel 2014 sotto la regia del generale Suleimani. Le discordie all’interno del modo islamico sono molteplici ed hanno sempre generato fazioni avverse, in lotta fra loro per motivi culturali e religiosi. La Quds Force e la Fratellanza Musulmana si trovavano fino al 2014 su posizioni lontane, tuttavia, fu organizzato uno sforzo segreto di distensione fra le due fazioni, che hanno tenuto un vertice in un hotel turco, precedentemente mai divulgato.
Il vertice ha messo in contatto la Quds Force, il braccio militare della Guardia Rivoluzionaria dell’Iran, il Paese sciita più potente al mondo, e la Fratellanza Musulmana, una forza politica e religiosa pan-islamista tentacolare, con presenza significativa nel mondo musulmano sunnita in tutti i Paesi Arabi. La premessa di questi incontri risiedeva nella complementarità e nella condivisione di un nemico comune, l’Arabia Saudita.
La Quds Force aveva una disciplinata e potente organizzazione militare, presente in tutte le aree di guerra del Medioriente, mentre la Fratellanza era presente dove la Quds Force non sarebbe mai potuta penetrare, negli strati più profondi delle popolazioni sunnite. Queste caratteristiche peculiari non potevano sfuggire al generale Suleimani, fondatore della Quds Force, profondo conoscitore del mondo islamico e di tutto il Medio Oriente.
C’erano stati precedenti incontri e contatti pubblici tra funzionari iraniani ed egiziani, ma non sono mai andati oltre un formale e reciproco riconoscimento, che non si è mai tradotto nella condivisione di un progetto politico. Nel 2013, con la caduta di Morsi in Egitto, gli incontri sembravano essersi definitivamente interrotti. Una intercettazione dell’intelligence iraniana del 2014 fornisce invece una versione non conosciuta della volontà (segreta) dei Fratelli musulmani e degli iraniani di mantenere i contatti, per determinare possibili collaborazioni.
L’intercettazione rivela le dinamiche politiche che separano le organizzazioni sunnite e sciite, e rappresenta le complessità esasperanti del panorama politico mediorientale, mostrando quanto sia difficile per degli stranieri, come gli americani, capire cosa realmente accada in Medioriente. A uno sguardo superficiale, la Quds Force e la Fratellanza Musulmana sembrerebbero acerrimi nemici. La Quds Force ha usato il suo potere militare per portare l’Iran a espandere la sua influenza in tutto il Medio Oriente, attraverso milizie sciite che hanno commesso terribili atrocità contro i sunniti in Iraq, e schierandosi con il brutale regime di Bashar al-Assad nella guerra civile siriana.
La Fratellanza Musulmana è stata un attore chiave nella politica araba sunnita per decenni, portando l’approccio islamista fondamentalista a una lunga battaglia contro i governi di diversi Paesi Arabi, e aprendo la stagione delle cosiddette «primavere arabe». Nella Fratellanza si sono sviluppate nel tempo anche aggregazioni estremiste e terroristiche, come Hamas. Il vertice si è svolto in un momento critico per la Quds Force e la Fratellanza Musulmana, il che spiegherebbe perché le due parti abbiano accettato di parlarsi.
Nell’aprile 2014, l’Isis stava lacerando le regioni a maggioranza sunnita nell’Iraq settentrionale e l’esercito iracheno si stava disgregando di fronte alle brutali tattiche terroristiche dell’Isis, che era giunto a minacciare la stabilità del governo iracheno a Baghdad, sostenuto dall’Iran. La minaccia dell’Isis aveva spinto la Quds Force a intervenire in Iraq, su richiesta del governo iracheno di ispirazione sciita del Primo ministro al-Maliki. La Quds Force condusse le milizie sciite nella battaglia contro l’Isis, ma Maliki fu visto come un burattino iraniano, suscitando rabbia e risentimento tra i sunniti iracheni, e presto sarebbe stato deposto.
Allo stesso tempo, il sogno della primavera araba si era trasformato in un incubo per i Fratelli musulmani, con la guerra che infuriava in Siria e la loro espulsione dal governo egiziano. Indeboliti dalle sconfitte, i Fratelli musulmani vedevano un’alleanza con gli iraniani come un’opportunità per riguadagnare parte della loro importanza regionale, mentre l’Iran vedeva nella Fratellanza l’unica possibilità di infiltrarsi nei Paesi a maggioranza sunnita.
La Quds Force guidata dal generale Suleimani conferiva all’alleanza la componente militare ed organizzativa, la visione strategica e l’esperienza nelle relazioni internazionali maturata nelle guerre in Medio Oriente, quali componenti insostituibili per una campagna comune di valenza regionale, in tutto il Mediterraneo. Le rivelazioni delle intercettazioni sono dovute al fatto che il MOIS era ormai un rivale delle Guardie della Rivoluzione all’interno dell’apparato di sicurezza iraniano, ed aveva segretamente infiltrato un agente durante l’incontro. All’incontro partecipò una delegato del generale Suleimani e la Fratellanza musulmana era rappresentata da tre dei suoi più importanti leader egiziani in esilio: Ibrahim Munir Mustafa, Mahmoud El-Abiary e Youssef Moustafa Nada.
I riscontri confermano l’apertura del canale di comunicazione tra Fratellanza musulmana e Quds Force, verificata la condivisione degli obiettivi comuni, il riconoscimento del nemico comune nell’Arabia Saudita e la complementarità delle due organizzazioni, la cui alleanza avrebbe aperto l’accesso ad opportunità comuni nel Mediterraneo. Gli eventi successivi hanno mostrato una ripresa maggiormente organizzata delle iniziative della Fratellanza a livello regionale e la compatibilità, non potendosi parlare formalmente di coordinamento, con le operazioni della Quds Force e dei governi dei rispettivi Paesi.
In definitiva, è stato individuato un interesse politico comune fra l’islam Sciita e la Fratellanza Musulmana, che ha aperto un dialogo per una strategia comune nel Medioriente e non solo. L’influenza della Fratellanza è ravvisabile soprattutto nei Paesi arabi esposti a rischi di stabilità, dove sussistono fasce deboli della popolazione, spesso derivanti da guerre civili, come in Libia e in Somalia. In Libia i Fratelli musulmani sono sostenuti dal Qatar, cha sostiene anche il GNA (Governo di Accordo Nazionale) di al-Serraj, riconosciuto dall’Onu, in Siria sono diversi i movimenti riconducibili alla Fratellanza, che all’inizio della guerra civile era contro il presidente Assad ed oggi è fuori legge in Siria. Nello Yemen, i Fratelli musulmani sono presenti con il partito Al Islah. La Fratellanza è presente anche in Somalia, dove la Turchia intende estendere la sua area di influenza. In Palestina Hamas, che ha il controllo della Striscia di Gaza, è riconducibile ai Fratelli musulmani, sostenuta e armata anche dalle Milizie Sciite del generale Suleimani, che sostengono anche Hezbollah in Libano.
Michelangelo Celozzi
coordinatore del Trans Med Engineering network
